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Amore e sessualità ovvero vite che desiderano “vita”

28 Aprile, fonte superando.it Tania Sabatino *

Per illustrare lo spirito e i presupposti conoscitivi di una ricerca che sto conducendo prendo a prestito “emozioni, espressioni ed emozioni” suggeritemi da una cara amica.
Vite (“non degne di essere vissute”, secondo una frase tristemente nota a livello storico) che desiderano “vita”, che anelano a potersi abbeverare alla fonte dell’energia vitale, che sperano di potersi finalmente “buttare” nel mare delle possibilità, scegliendo anche di farsi male fisicamente (tanto al dolore la disabilità ci ha abituato, e si tratta di una disabilità che non fa sconti, dove la sofferenza, che spesso si trasforma in insofferenza, fisica ed emotiva, diviene, ahimè, carta fin troppo conosciuta), ma anche emotivamente.
Perché chi soffre sente e chi sente è vivo. E così può scegliere anche di cambiare strada, di nuotare in un’altra direzione nel mare “insidioso” dell’esistenza, o al contrario troppo piatto, e già scritto “dall’alto”, di verità e certezze che assumono la fisionomia di atteggiamenti pregiudiziali e stereotipi.

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Malati psichici e discriminazioni. La risorsa delle diversità

25 Aprile, fonte corriere.it

Le violenze ai malati da parte del personale sanitario, la gita scolastica negata all’alunna autistica: saranno casi isolati ma guai a minimizzarli. I dolori dell’anima e della psiche sono una sfida al vivere comune

La notizia di violenze a malati psichici da parte del personale che avrebbe dovuto averne cura. L’altro giorno la scuola che esclude da una gita l’alunna affetta da autismo (solo il clamore mediatico ha risolto la vicenda). Saran casi isolati e diversi, ma guai a minimizzare, assuefarsi, non condannare episodi che fanno male a vittime e famiglie; che gettano ombre su un settore in cui molti invece aiutano chi patisce una sofferenza dura; che mostrano il volto arido di una città incapace di vedere e farsi carico delle fragilità forse più nascoste ma non per questo meno diffuse e pervasive di un disagio collettivo sommerso. I dolori dell’anima e della psiche sono una sfida al vivere comune: una grande, generale provocazione da accogliere, non da rimuovere. Mettono chi li patisce fuori dai parametri di corporeità, efficienza, produttività che una visione del mondo ispirata ad affermazione dell’Io pretende di accreditare quali canoni di progresso. Disumanizzano i modi di concepire la salute e le dinamiche delle strutture che dovrebbero farsi carico di prevenzione e cura delle affezioni della persona: nessuna esclusa, discriminata o trattata da Cenerentola.

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Quelle ferite nel principio di umanità

22 Aprile, fonte superando.it  Antonio Giuseppe Malafarina

Commentare è uno degli sport più diffusi al mondo. È gratuito – querele e reazioni violente dei destinatari del commento a parte – e l’alibi del “così fan tutti” aiuta ad alimentare la prassi. Sui mezzi d’informazione – finché esistono, per ora esistono – è più impegnativo, ma dacché il mondo è pieno di opinionisti, non c’è motivo di trattenersi.

Ora, gli avvenimenti in proposito di mancate gite di persone con disabilità, adesso d’attualità, richiedono un commento da parte di chi, come me, osserva da vicino il “sistema disabilità”. Un commento in più ad aggiungersi alla litania degli altri che in queste settimane non hanno saputo trattenersi dall’esprimere le loro sentenze non nuocerà gravemente alla salute del Lettore. Spero non mi quereli nessuno. Né mi arrivi un ceffone.

Come mia cifra espressiva, parto dal rammentare i punti di partenza, innanzitutto a Livorno, una decina di giorni fa: un bambino con autismo arriva in classe e non trova nessuno, i compagni sono andati in gita senza avergli detto nulla. L’accaduto ha un seguito intricato, ma intanto sa di pessimo scherzone. Ci vedo Fantozzi che arriva in ufficio e non trova Filini e gioiosa brigata che sono andati in gita a Fregene senza di lui, “merdaccia” indegna della loro autocelebrata compagnia.

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La politica che vorrei è una politica (anche) per le famiglie con disabilità

21 Aprile, fonte disabili.com

Nelle famiglie che hanno tra i propri componenti una persona con disabilità – magari grave - il desiderio di sfogo della loro rabbia è qualcosa che viaggia continuamente sulla superficie dei giorni. Superficie che spesso e volentieri è, insieme alle gioie quotidiane, un vaso colmo di preoccupazioni, frustrazioni e ingiustizie a tanto così dall’essere definitivamente fatto deflagrare. E’ il sommarsi di fatiche e avvilimenti, di diritti non concessi, di battaglie alla burocrazia o all’ignoranza del fuori; è anche solo la stanchezza di una vita che, sì colma, è carica di preoccupazioni e sforzi che sembrano soli e infiniti

Ma da questo desiderio di sfogo, che nei casi più drammatici sfocia in inenarrabili terribili tragedie - del cui fragore sordo siamo svegliati dalla cronaca, prima di riassopirci - nasce spesso l’impegno in prima linea, la discesa in quel campo di battaglia dove il nemico non sono solo le quotidiane, inevitabili e imprevedibili difficoltà della vita, ma l’handicap creato dalla società.

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La storia della disabilità vista con gli occhi di mamma Vincenza

18 Aprile, fonte invisibili.corriere.it

Quello che segue non è il solito testo «sentito» di una figlia che descrive la madre. Qui c’è di più: c’è uno spaccato della società calabrese che cresce con i suoi protagonisti dagli anni ’30 ai nostri giorni. L’attacco è di una valenza antropologica assoluta. Credo che nelle intenzioni dell’autrice, quel contesto dovesse essere protagonista. E lo è.
La figura di Vincenza è raccontata come un’entità. «Una creatura» è definita più volte, una definizione che rende la sua vita trasversale agli eventi storici e sociali che hanno caraterizzato gli anni ’50 in Italia e in Calabria. Per Vincenza, modernissima e intelligente, la sua disabilità è una condizione di vita come un’altra, non irrimediabilmente uno svantaggio. Fuori dal contesto storico c’è, nell’intimità del rapporto dell’autrice con la mamma, qualcosa di impalpabile che va oltre la tensione filiale: una delicatissima complicità femminile che fa di Caterina, la figlia, una figura nobile alla quale siamo grati per il prestito del «numetutelare» della sua famiglia.

Testo di Caterina Marra

A quel tempo era normale non conoscere il giorno esatto della propria nascita.
Quello che era meno frequente era chiamare la propria figlia col nome dello zio, ovviamente trasformato al femminile!

Così, a fine dicembre del 1931, nasce Vincenza; la data esatta non è stato  mai possibile saperla. Il suo nome, come la sua mamma avrebbe desiderato, doveva essere quello della nonna; avrebbe dovuto chiamarsi, quindi, Caterina.

Invece no: il papà decide che la suocera non merita questa tradizione e, quindi, trascrive all’anagrafe in data 6 gennaio 1932 la paternità della bimba con il nome del proprio fratello Vincenzo. È così che ha inizio la vita unica e splendida di una creatura che ha regalato chi l’ha conosciuta l’esperienza di vivere la disabilità con assoluta fierezza e dignità.

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