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L'identità invisibile

Scritto da Super User. Postato in Libri

Le persone con autismo, diventando adulte, scompaiono dall'immaginario collettivo e spesso anche dall'attenzione di medici e ricercatori. Perdono «l'identità diagnostica» e «l'identità sociale»; cambiano i loro «interlocutori della cura» e i «contenitori istituzionali» e acquisiscono quella che l'Autore definisce «l'identità invisibile», come espressione di disuguaglianza e di disparità sociale nell'utilizzo di risorse e di servizi, ma soprattutto come espressione di diminuita qualità di vita. Questo libro è una storia di vita, la vita di Gabriele, affetto da autismo, e quella di un genitore, che quelle vite le racconta come un susseguirsi di ostacoli e di sfide. I disagi nella vita del figlio diventano i disagi nella vita del padre, perché entrambi sono (stati lasciati) soli. La società, le istituzioni, le strutture sono punti precari, non offrono appigli... È davvero dura. Il forte senso di solitudine e d'abbandono fa sì che la quotidianità assuma a volte forme talmente logoranti da far perdere il senso dell'appartenenza alla società e la consapevolezza dei propri diritti. Questo racconto - crudo e tenero, tagliente e lucido - fa comprendere appieno la gravosa condizione di vivere e di convivere con la sindrome autistica in individui adulti e denuncia storture, contraddizioni, errori, insensibilità e ingiustizie che quotidianamente si consumano nei confronti di tanti Gabriele e di tanti loro papà.


Recensire il libro L’identità invisibile. Essere autistico, essere adulto di Gianfranco Vitale (Roma, Magi, 2019) è stato difficile. Non certo perché è un libro scritto male, o per la non condivisibilità di ciò che dice, ma per il suo esatto contrario. Fin dalle prime pagine, infatti, si respira infatti qualcosa che noi genitori di ragazzi con autismo, e anche i nostri figli, conosciamo bene: l’ineluttabilità della solitudine e l’imprevedibilità della nostra vita. 

Gianfranco non è un pessimista, né lo sono io, ma la prima domanda che ci facciamo durante la giornata è: «Oggi ce la faremo?». E la risposta non è mai certa, così come incerto è l’aiuto che ci dovrebbero dare gli altri, quella società in cui viviamo, per la quale paghiamo le tasse, di cui siamo cittadini, appunto, insieme ai nostri figli.
Io e Gianfranco, i nostri figli Giovanni e Gabriele, i nostri coniugi, separati e non, abbiamo un codice fiscale e siamo nati e viviamo in Italia, come tanti genitori e figli e individui. Ma al contrario di loro, non possiamo contare su una qualità di vita sufficiente, e sulla visibilità che garantisce quella famosa empatia e solidarietà che pure vediamo spesso sbandierata per un giorno all’anno.
Si , proprio quel famoso giorno in cui le luci si dipingono di blu.

Di autismo si parla tanto, quasi troppo. Di persone con l’autismo, invece, non si parla proprio. Perché le persone con autismo – e non gli stereotipi e non i film – non ci vengono davvero mostrate e non entrano davvero in un immaginario collettivo che non li vede protagonisti. Simpatiche “macchiette di film”, oppure geni più o meno compresi, le vere persone con autismo spesso non sono né l’uno né l’altro ed è per questo motivo che la loro vita, e la nostra, è così dannatamente difficile.
Una persona con l’autismo è come qualcuno che viene costretto continuamente a camminare sul filo, sulle braci ardenti, fare il giocoliere, insomma fare cose straordinarie. Perché tale, ai loro occhi, appare la vita dei più, così intrisa di relazioni basate su regole, norme e sottintesi. E anche agli occhi dei loro familiari, perché siamo noi a stare sotto quella fune, a riprendere le manichette, a spegnere le braci.
Un genitore di un ragazzo con autismo ha delle capacità da supereroe, come il proprio figlio, da quando quest’ultimo compie diciotto anni e diventa invisibile.
Al posto di Gianfranco e di suo figlio, al posto mio e di mio figlio Giovanni, e di tanti altri, rimane solo l’autismo, e questo, come per miracolo, include tutte le nicchie: Giovanni, o Gabriele non possono soffrire di mal di pancia come gli altri, non possono avere intolleranze, non possono permettersi di essere depressi, perché tutto sarà, magicamente, autismo.
La loro solitudine non sarà colmata, e chi si occuperà di loro penserà al minimo sindacale, perché dall’altra parte non c’è una persona che dev’essere capita o stimolata, ma solo assistita e al limite imbottita di farmaci.

Questo mi ricorda come un tempo si trattavano gli animali, sopratutto quelli selvatici, i grandi felini per esempio. Si sbattevano in gabbie di pochi metri quadri, e quando diventavano agitati, vai di sedativo.

Sarà meglio la stanza dove purtroppo Gianfranco deve riportare Gabriele, dopo che una mamma troppo sola ha dovuto abdicare alla cura del figlio? Assolutamente no.

Come per quei felini, sui vestiti di Gabriele, sulle fibbie, sulla sua persona e identità ci sono dei numeri e delle sigle. Non scomodiamo paragoni umani, basta pensare agli zoo di una volta…
Nella sua gabbia, Gabriele non può fare altro che arrabbiarsi, ma senza essere visto, malgrado lui veda bene, eccome. Il vuoto sociale in cui cadono i ragazzi, gli uomini come lui, viene interrotto solo quando grida, quando prende a botte, quando mostra la sua presenza. C’è da stupirsi quindi che lui usi questo sistema?
Noi possiamo parlare, e cercare di esprimere sensazioni ed emozioni, ma Gabriele ha difficoltà a farlo, e se succedesse a uno di noi, come di fatto capita in casi di ictus e di TIA [attacco ischemico transitorio, N.d.R.], ci sbracceremmo per poter fare ritornare la persona in grado di comunicare, di avere una relazione. Perché chi subisce un ictus , un TIA, è uno di noi, o per meglio dire “uno di voi”.

La genitorialità costringe me, e ha costretto Gianfranco Vitale che scrive, a essere dalla parte dei nostri figli, e vedere chiaramente la resa della cosiddetta società civile, di fronte alla necessità di rivedere il proprio mondo per includere anche la neurodiversità. Sentimenti umani come la frustrazione e la noia vengono sedati con le medicine, e visti come sintomi senza necessità di risposta.

La società che segue Gabriele – perfino la maggior parte dei medici e degli operatori – non è nemmeno indifferente, questo sarebbe già un progresso: è consapevolmente distruttiva nei confronti di una condizione che, magicamente, trasforma un uomo in oggetto e non soggetto di cure. In questa condizione, a nulla sembrano valere le proteste del padre, la buona volontà di alcuni medici che però, curiosamente, si estende ai sintomi non sfiorando la persona, sempre considerata un insieme degli stessi. Così l’epilessia diventa qualcosa da curare sì, ma per carità, si può solo consigliare un abbassamento dei farmaci che contribuiscono ad alimentarla.
E il grave dramma personale del padre, ma anche della madre, con condizioni di salute che riducono anche lei alla disabilità, non merita nemmeno una telefonata, un messaggio di testo, un qualunque cenno di simpatia dal Centro dove pure Gabriele trascorre il tempo. Individui che non sono mai figli da compatire, persone da supportare, bisognose di amore, di cure, e di rispetto. Genitori che non possono lasciarsi andare, piangere, fare vacanze da soli, a parte i brevi momenti dei soggiorni, curarsi.
È la terribile chiave che Gabriele dà, ad un certo punto della storia, che citerò alla fine, scritta sulla carta e impressa nel suo cuore.

Questo è il libro di Gianfranco Vitale, un libro scritto bene, che punta a mostrare con il dito quei “buchi neri” e a renderli di nuovo madri, padri, figli, famiglie. Cittadini di questo mondo.

Perché ora, proprio ora, malgrado le chiacchiere delle Giornate sull’Autismo, i saggi convegni in cui si parla, noi non viviamo davvero in questo mondo. I nostri figli non ci vivono, Gabriele non ci vive.

Dov’è dunque Gabriele, dove sarà mio figlio? Avete davanti a voi la soluzione, è il Golgota, è quel Gesù solo e crocifisso, un Dio abbandonato che non può che urlare. Una profezia che può essere smentita, se ci si toglie quel velo ipocrita dagli occhi, se vediamo la neurodiversità per ciò che è, una condizione di persone umane: facciamo scendere Gabriele dalla croce!

 

Rosa Mauro

Recensione pubblicata su http://www.superando.it/2019/09/17/lidentita-invisibile-essere-autistico-essere-adulto/?fbclid=IwAR2ckOEof4MHFr3wgUgtsSpzZkM9WhITwHVDLYuCenJPo2YLK2u26FaQp2Q


Questo libro è la storia della identità tra Cristo e Gabriele, cioè fra un profeta messo in croce e uomo autistico di trent’anni. Gabriele si riconosce in “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. E non potrebbe essere altrimenti. L’identità invisibile di Gabriele non è, infatti, molto diversa da quella di Gesù Cristo, nel momento più supremamente umano della sua vita di profeta, quando dice: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni…».

Dopo che la mamma ha sopportato fatica e solitudine, il ragazzo viene ‘internato’ in una comunità alloggio. Egli porta cucito addosso il numero 155, con cui siglano tutte le sue cose. Gabriele si sente il numero 155: “Sono solo un numero. Ovunque mi giri, è attaccato a me. Vedi?”. Porta addosso anche il dolore di non essere padrone di interpretare le proprie emozioni. La sua storia è illuminata dalla ricerca continua dei suoi genitori, dalla voglia di migliorare, dal desiderio di vivere cose nuove, dalla gioia di mangiare al ristorante e di bere il caffè al distributore automatico.

Il libro scritto da Gianfranco Vitale, papà di Gabriele, riesce a trasformare l’invisibilità; vi si comprendono la fatica del padre e le emozioni del figlio, quasi che l’identità invisibile possa trasformarsi in identità visibile.

Ma il secondo vero protagonista della storia di Gianfranco Vitale, dopo Gabriele, è lo Stato: le persone deputate a fare chiarezza sul difficile destino accaduto al ragazzo sono spesso mosse dall’indifferenza, e sono gravemente scoordinate fra loro. E dunque il libro rende visibile l’invisibilità di Gabriele, ma anche l’insensibilità, la routinarietà di una pubblica amministrazione che agisce senza entusiasmo: una realtà dolorosa, che è in grado di fare male. Fa male come quelle botte immotivate che arrivano di tanto in tanto, fa male come le domande senza risposta che lancia Gabriele: “Che vita è la mia?” In tale situazione, il padre si chiede: “Quanto avrei potuto resistere? Quanto avremmo potuto resistere?

Certamente pensavano a Gabriele i nostri padri costituenti, quando imperniavano gli sforzi della Repubblica sull’articolo tre: è necessario che lo Stato lavori per superare ciò che limita di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. Parlava per Gabriele, Piero Calamandrei, quando supplicava gli studenti di Milano, in un celebre discorso, di accollarsi il duro lavoro di far sì che lo Stato sostenga i portatori di disuguaglianza. In questo libro, invece, il grande assente è lo Stato: ha tradito il supremo compito di condividere la fatica di un padre nel “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

Gabriele, invece, fa “doni enormi”, proprio lui che “di doni ne ha ricevuti pochi”. Ed è vero. Nel mio lavoro di insegnante, ho potuto sperimentare molte volte i “doni enormi” che effettivamente il diversamente abile porta al resto della classe. Le competenze funzionali utili alla vita che il gruppo acquisisce sono tante, in questo percorso di reciproca integrazione, dove hanno valenza formativa anche tutte le altre differenze: differenze spaziali rappresentate da ragazzi di altri continenti, italiani di varie Italie, differenze temporali nell’età, differenze culturali e sociali. I soggetti, nelle loro eterogeneità, corrispondono fra loro incrociando a metà del cammino le loro diversità: è un incontro biunivoco; è una corrispondenza, nel senso etimologico del termine (cum e respondere, che non sta per “rispondere a” ma per “rispondere con”, cioè trovare un accordo comune in un percorso comunicativo). L’esperienza di questa “corrispondenza”, alla quale si deve profondamente credere, contro ogni pregiudizio o pigrizia pedagogica, non può che tessere, dunque, l’acquisizione di competenze straordinariamente interiorizzate: vi è un quotidiano allenamento a comprendere gli altri, a risolvere situazioni di crisi, a conoscere l’emotività propria e altrui, la grande avventura di variare i linguaggi, compresi quelli del gesto e del sorriso, l’affettività come strumento comunicativo privilegiato.

Così anche è facile, nella mia esperienza, riconoscere che il fondamentale ruolo delle diverse componenti dello Stato giochi una partita determinante nel benessere o nel malessere di tutti. Ho sperimentato che basta una sola operatrice illuminata a trasformare una situazione di sofferenza per molti.

Gabriele, dunque, è come il Cristo degli abissi, la statua che è stata collocata sotto il mare, nella costa tirrenica italiana. Il padre di Gabriele scrive il libro, e riesce a portare Cristo fuori dagli abissi, riesce a farci toccare l’identità di Gabriele, a scioglierla – per il tempo di queste pagine – dall’invisibilità perpetua, a cui è ancorata la sua identità. Si palesa la gioia del ragazzo, la sua speranza che non si placa mai, che nessun maltrattamento subìto riesce a sopprimere, sebbene a essere incrinata sì, come le sue costole, colpite per l’atterramento da parte di un operatore.

La scrittura di Gianfranco Vitale ti dà il senso dell’immediatezza delle cose, di come esse accadono. L’unico lieto fine che sembra auspicabile è di restituire a Gabriele quel che è possibile della sua vita, con l’attenzione che lo Stato gli deve, cioè servendo la causa affidata con “disciplina e onore” (Costituzione, articolo 54).

 

Recensione di Francesca Vian: https://fondazionenenni.blog/2019/10/17/le-identita-invisibili-fra-noi-e-lindifferenza-dello-stato/?fbclid=IwAR1q74zkWN80n46Z9ap_VpY7kHNmTwpUqsS349Xo1qmzLmKC03FPyq-tBQw


 

Il libro di Gianfranco Vitale racconta con la giusta enfasi e passione umana di padre alcuni episodi significativi della sua vita con il proprio figlio.

Come tutte le narrazioni che riguardano i propri figli autistici anche questa è permeata dalla drammaticità, dalle inenarrabili sfibranti fatiche, dalle immense difficoltà e soprattutto dalla profondissima solitudine, tutti fattori questi che sono costanti e senza fine. Perché mentre per il padre e la madre che hanno un figlio neurotipico tutto ciò è destinato a finire con il giungere dell’età adulta, invece i tanti Gianfranco scoprono ben presto che tutto ciò è senza fine con un futuro a dir poco incerto e nebuloso. E vivono la loro vita in una sorta di equilibrio instabile su una corda tesa sopra un precipizio.

Credo che non sia più necessario spendere ulteriori parole per spiegare al mondo dei cosiddetti neurotipici che la realtà esistenziale dell’autismo è difficile e che i genitori, soprattutto quando sono soli, si trovano ad affrontare condizioni e situazioni che qualsiasi essere umano avrebbe difficoltà a gestire.
Invece devono essere spese ancora molte parole, purtroppo, per sottolineare che compito degli operatori dovrebbe essere quello di supportare e consigliare per alleggerire i problemi, non di aumentare le difficoltà con soluzioni di difficilissima comprensione e astruse nella concretezza dell’efficacia.

Ma questo spesso non accade anzi accade l’esatto contrario.

Conosco Gianfranco da tempo e so quanto impegno ha prodotto nei confronti del proprio figlio, conosco le sue cadute e le sue “resurrezioni”. Quello che si può dire di Gianfranco è che non ha mai perso la speranza nè ha mai smesso di lottare per raggiungere una qualità di vita migliore per sé, per il proprio figlio e, in fin dei conti, anche per i figli degli altri.

È facile talvolta giudicare i genitori dall’esterno, collocandosi e arroccandosi nelle alture di un’altezzosa conoscenza, più o meno ammantata di scienza, ma provate voi a vivere con accanto un figlio autistico ad analizzare i suoi comportamenti e capire cosa fare e come farlo senza entrare in crisi, senza avere momenti di sconforto e disperazione.

Nel racconto il papà ne esce come una figura tragicamente eroica, piena di dubbi e di domande senza risposta ……  una persona nei cui confronti non si può non provare un profondo sentimento di empatia e di pietas latina.

Noi cosiddetti specialisti dovremmo leggere con più attenzione questi racconti più dei testi che raccontano di autismo, libri spesso scritti da qualcuno che ha conosciuto l’autismo solo leggendo libri scritti da qualcun altro, senza però “sporcarsi” le mani con le vite vissute.

Bisogna, quindi, imparare a star accanto ai genitori senza se e senza ma, accogliendoli e non giudicandoli, ma soprattutto ascoltandoli, perché si impara sempre dai loro racconti!

https://www.superando.it/2019/09/17/lidentita-invisibile-essere-autistico-essere-adulto/

Gentile dott. Vitale

i suoi libri mi hanno veramente colpito e fatto molto riflettere sulla vita delle persone. Oltre a questo, che forse è scontato perchè raccontano storie di persone che hanno qualcosa da dire, li ho anche trovati molto ben scritti e spero che le mie parole sull'indice abbiano almeno in parte interpretato i messaggi che nascondeva. I suoi libri, che sono poi il punto di partenza (anche se inseriti per ultimi nell'articolo) dell'intero articolo, sono in una compagnia che spero piaccia, che include Sacks e Foer.

Armando Genazzani

 

Clicca qui per leggere la recensione.

 

 

 

 

 

 

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