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L'identità invisibile

Scritto da Super User. Postato in Libri

Le persone con autismo, diventando adulte, scompaiono dall'immaginario collettivo e spesso anche dall'attenzione di medici e ricercatori. Perdono «l'identità diagnostica» e «l'identità sociale»; cambiano i loro «interlocutori della cura» e i «contenitori istituzionali» e acquisiscono quella che l'Autore definisce «l'identità invisibile», come espressione di disuguaglianza e di disparità sociale nell'utilizzo di risorse e di servizi, ma soprattutto come espressione di diminuita qualità di vita. Questo libro è una storia di vita, la vita di Gabriele, affetto da autismo, e quella di un genitore, che quelle vite le racconta come un susseguirsi di ostacoli e di sfide. I disagi nella vita del figlio diventano i disagi nella vita del padre, perché entrambi sono (stati lasciati) soli. La società, le istituzioni, le strutture sono punti precari, non offrono appigli... È davvero dura. Il forte senso di solitudine e d'abbandono fa sì che la quotidianità assuma a volte forme talmente logoranti da far perdere il senso dell'appartenenza alla società e la consapevolezza dei propri diritti. Questo racconto - crudo e tenero, tagliente e lucido - fa comprendere appieno la gravosa condizione di vivere e di convivere con la sindrome autistica in individui adulti e denuncia storture, contraddizioni, errori, insensibilità e ingiustizie che quotidianamente si consumano nei confronti di tanti Gabriele e di tanti loro papà.


Recensire il libro L’identità invisibile. Essere autistico, essere adulto di Gianfranco Vitale (Roma, Magi, 2019) è stato difficile. Non certo perché è un libro scritto male, o per la non condivisibilità di ciò che dice, ma per il suo esatto contrario. Fin dalle prime pagine, infatti, si respira infatti qualcosa che noi genitori di ragazzi con autismo, e anche i nostri figli, conosciamo bene: l’ineluttabilità della solitudine e l’imprevedibilità della nostra vita. 

Gianfranco non è un pessimista, né lo sono io, ma la prima domanda che ci facciamo durante la giornata è: «Oggi ce la faremo?». E la risposta non è mai certa, così come incerto è l’aiuto che ci dovrebbero dare gli altri, quella società in cui viviamo, per la quale paghiamo le tasse, di cui siamo cittadini, appunto, insieme ai nostri figli.
Io e Gianfranco, i nostri figli Giovanni e Gabriele, i nostri coniugi, separati e non, abbiamo un codice fiscale e siamo nati e viviamo in Italia, come tanti genitori e figli e individui. Ma al contrario di loro, non possiamo contare su una qualità di vita sufficiente, e sulla visibilità che garantisce quella famosa empatia e solidarietà che pure vediamo spesso sbandierata per un giorno all’anno.
Si , proprio quel famoso giorno in cui le luci si dipingono di blu.

Di autismo si parla tanto, quasi troppo. Di persone con l’autismo, invece, non si parla proprio. Perché le persone con autismo – e non gli stereotipi e non i film – non ci vengono davvero mostrate e non entrano davvero in un immaginario collettivo che non li vede protagonisti. Simpatiche “macchiette di film”, oppure geni più o meno compresi, le vere persone con autismo spesso non sono né l’uno né l’altro ed è per questo motivo che la loro vita, e la nostra, è così dannatamente difficile.
Una persona con l’autismo è come qualcuno che viene costretto continuamente a camminare sul filo, sulle braci ardenti, fare il giocoliere, insomma fare cose straordinarie. Perché tale, ai loro occhi, appare la vita dei più, così intrisa di relazioni basate su regole, norme e sottintesi. E anche agli occhi dei loro familiari, perché siamo noi a stare sotto quella fune, a riprendere le manichette, a spegnere le braci.
Un genitore di un ragazzo con autismo ha delle capacità da supereroe, come il proprio figlio, da quando quest’ultimo compie diciotto anni e diventa invisibile.
Al posto di Gianfranco e di suo figlio, al posto mio e di mio figlio Giovanni, e di tanti altri, rimane solo l’autismo, e questo, come per miracolo, include tutte le nicchie: Giovanni, o Gabriele non possono soffrire di mal di pancia come gli altri, non possono avere intolleranze, non possono permettersi di essere depressi, perché tutto sarà, magicamente, autismo.
La loro solitudine non sarà colmata, e chi si occuperà di loro penserà al minimo sindacale, perché dall’altra parte non c’è una persona che dev’essere capita o stimolata, ma solo assistita e al limite imbottita di farmaci.

Questo mi ricorda come un tempo si trattavano gli animali, sopratutto quelli selvatici, i grandi felini per esempio. Si sbattevano in gabbie di pochi metri quadri, e quando diventavano agitati, vai di sedativo.

Sarà meglio la stanza dove purtroppo Gianfranco deve riportare Gabriele, dopo che una mamma troppo sola ha dovuto abdicare alla cura del figlio? Assolutamente no.

Come per quei felini, sui vestiti di Gabriele, sulle fibbie, sulla sua persona e identità ci sono dei numeri e delle sigle. Non scomodiamo paragoni umani, basta pensare agli zoo di una volta…
Nella sua gabbia, Gabriele non può fare altro che arrabbiarsi, ma senza essere visto, malgrado lui veda bene, eccome. Il vuoto sociale in cui cadono i ragazzi, gli uomini come lui, viene interrotto solo quando grida, quando prende a botte, quando mostra la sua presenza. C’è da stupirsi quindi che lui usi questo sistema?
Noi possiamo parlare, e cercare di esprimere sensazioni ed emozioni, ma Gabriele ha difficoltà a farlo, e se succedesse a uno di noi, come di fatto capita in casi di ictus e di TIA [attacco ischemico transitorio, N.d.R.], ci sbracceremmo per poter fare ritornare la persona in grado di comunicare, di avere una relazione. Perché chi subisce un ictus , un TIA, è uno di noi, o per meglio dire “uno di voi”.

La genitorialità costringe me, e ha costretto Gianfranco Vitale che scrive, a essere dalla parte dei nostri figli, e vedere chiaramente la resa della cosiddetta società civile, di fronte alla necessità di rivedere il proprio mondo per includere anche la neurodiversità. Sentimenti umani come la frustrazione e la noia vengono sedati con le medicine, e visti come sintomi senza necessità di risposta.

La società che segue Gabriele – perfino la maggior parte dei medici e degli operatori – non è nemmeno indifferente, questo sarebbe già un progresso: è consapevolmente distruttiva nei confronti di una condizione che, magicamente, trasforma un uomo in oggetto e non soggetto di cure. In questa condizione, a nulla sembrano valere le proteste del padre, la buona volontà di alcuni medici che però, curiosamente, si estende ai sintomi non sfiorando la persona, sempre considerata un insieme degli stessi. Così l’epilessia diventa qualcosa da curare sì, ma per carità, si può solo consigliare un abbassamento dei farmaci che contribuiscono ad alimentarla.
E il grave dramma personale del padre, ma anche della madre, con condizioni di salute che riducono anche lei alla disabilità, non merita nemmeno una telefonata, un messaggio di testo, un qualunque cenno di simpatia dal Centro dove pure Gabriele trascorre il tempo. Individui che non sono mai figli da compatire, persone da supportare, bisognose di amore, di cure, e di rispetto. Genitori che non possono lasciarsi andare, piangere, fare vacanze da soli, a parte i brevi momenti dei soggiorni, curarsi.
È la terribile chiave che Gabriele dà, ad un certo punto della storia, che citerò alla fine, scritta sulla carta e impressa nel suo cuore.

Questo è il libro di Gianfranco Vitale, un libro scritto bene, che punta a mostrare con il dito quei “buchi neri” e a renderli di nuovo madri, padri, figli, famiglie. Cittadini di questo mondo.

Perché ora, proprio ora, malgrado le chiacchiere delle Giornate sull’Autismo, i saggi convegni in cui si parla, noi non viviamo davvero in questo mondo. I nostri figli non ci vivono, Gabriele non ci vive.

Dov’è dunque Gabriele, dove sarà mio figlio? Avete davanti a voi la soluzione, è il Golgota, è quel Gesù solo e crocifisso, un Dio abbandonato che non può che urlare. Una profezia che può essere smentita, se ci si toglie quel velo ipocrita dagli occhi, se vediamo la neurodiversità per ciò che è, una condizione di persone umane: facciamo scendere Gabriele dalla croce!

 

Rosa Mauro

Recensione pubblicata su http://www.superando.it/2019/09/17/lidentita-invisibile-essere-autistico-essere-adulto/?fbclid=IwAR2ckOEof4MHFr3wgUgtsSpzZkM9WhITwHVDLYuCenJPo2YLK2u26FaQp2Q


Questo libro è la storia della identità tra Cristo e Gabriele, cioè fra un profeta messo in croce e uomo autistico di trent’anni. Gabriele si riconosce in “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. E non potrebbe essere altrimenti. L’identità invisibile di Gabriele non è, infatti, molto diversa da quella di Gesù Cristo, nel momento più supremamente umano della sua vita di profeta, quando dice: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni…».

Dopo che la mamma ha sopportato fatica e solitudine, il ragazzo viene ‘internato’ in una comunità alloggio. Egli porta cucito addosso il numero 155, con cui siglano tutte le sue cose. Gabriele si sente il numero 155: “Sono solo un numero. Ovunque mi giri, è attaccato a me. Vedi?”. Porta addosso anche il dolore di non essere padrone di interpretare le proprie emozioni. La sua storia è illuminata dalla ricerca continua dei suoi genitori, dalla voglia di migliorare, dal desiderio di vivere cose nuove, dalla gioia di mangiare al ristorante e di bere il caffè al distributore automatico.

Il libro scritto da Gianfranco Vitale, papà di Gabriele, riesce a trasformare l’invisibilità; vi si comprendono la fatica del padre e le emozioni del figlio, quasi che l’identità invisibile possa trasformarsi in identità visibile.

Ma il secondo vero protagonista della storia di Gianfranco Vitale, dopo Gabriele, è lo Stato: le persone deputate a fare chiarezza sul difficile destino accaduto al ragazzo sono spesso mosse dall’indifferenza, e sono gravemente scoordinate fra loro. E dunque il libro rende visibile l’invisibilità di Gabriele, ma anche l’insensibilità, la routinarietà di una pubblica amministrazione che agisce senza entusiasmo: una realtà dolorosa, che è in grado di fare male. Fa male come quelle botte immotivate che arrivano di tanto in tanto, fa male come le domande senza risposta che lancia Gabriele: “Che vita è la mia?” In tale situazione, il padre si chiede: “Quanto avrei potuto resistere? Quanto avremmo potuto resistere?

Certamente pensavano a Gabriele i nostri padri costituenti, quando imperniavano gli sforzi della Repubblica sull’articolo tre: è necessario che lo Stato lavori per superare ciò che limita di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. Parlava per Gabriele, Piero Calamandrei, quando supplicava gli studenti di Milano, in un celebre discorso, di accollarsi il duro lavoro di far sì che lo Stato sostenga i portatori di disuguaglianza. In questo libro, invece, il grande assente è lo Stato: ha tradito il supremo compito di condividere la fatica di un padre nel “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

Gabriele, invece, fa “doni enormi”, proprio lui che “di doni ne ha ricevuti pochi”. Ed è vero. Nel mio lavoro di insegnante, ho potuto sperimentare molte volte i “doni enormi” che effettivamente il diversamente abile porta al resto della classe. Le competenze funzionali utili alla vita che il gruppo acquisisce sono tante, in questo percorso di reciproca integrazione, dove hanno valenza formativa anche tutte le altre differenze: differenze spaziali rappresentate da ragazzi di altri continenti, italiani di varie Italie, differenze temporali nell’età, differenze culturali e sociali. I soggetti, nelle loro eterogeneità, corrispondono fra loro incrociando a metà del cammino le loro diversità: è un incontro biunivoco; è una corrispondenza, nel senso etimologico del termine (cum e respondere, che non sta per “rispondere a” ma per “rispondere con”, cioè trovare un accordo comune in un percorso comunicativo). L’esperienza di questa “corrispondenza”, alla quale si deve profondamente credere, contro ogni pregiudizio o pigrizia pedagogica, non può che tessere, dunque, l’acquisizione di competenze straordinariamente interiorizzate: vi è un quotidiano allenamento a comprendere gli altri, a risolvere situazioni di crisi, a conoscere l’emotività propria e altrui, la grande avventura di variare i linguaggi, compresi quelli del gesto e del sorriso, l’affettività come strumento comunicativo privilegiato.

Così anche è facile, nella mia esperienza, riconoscere che il fondamentale ruolo delle diverse componenti dello Stato giochi una partita determinante nel benessere o nel malessere di tutti. Ho sperimentato che basta una sola operatrice illuminata a trasformare una situazione di sofferenza per molti.

Gabriele, dunque, è come il Cristo degli abissi, la statua che è stata collocata sotto il mare, nella costa tirrenica italiana. Il padre di Gabriele scrive il libro, e riesce a portare Cristo fuori dagli abissi, riesce a farci toccare l’identità di Gabriele, a scioglierla – per il tempo di queste pagine – dall’invisibilità perpetua, a cui è ancorata la sua identità. Si palesa la gioia del ragazzo, la sua speranza che non si placa mai, che nessun maltrattamento subìto riesce a sopprimere, sebbene a essere incrinata sì, come le sue costole, colpite per l’atterramento da parte di un operatore.

La scrittura di Gianfranco Vitale ti dà il senso dell’immediatezza delle cose, di come esse accadono. L’unico lieto fine che sembra auspicabile è di restituire a Gabriele quel che è possibile della sua vita, con l’attenzione che lo Stato gli deve, cioè servendo la causa affidata con “disciplina e onore” (Costituzione, articolo 54).

 

Recensione di Francesca Vian: https://fondazionenenni.blog/2019/10/17/le-identita-invisibili-fra-noi-e-lindifferenza-dello-stato/?fbclid=IwAR1q74zkWN80n46Z9ap_VpY7kHNmTwpUqsS349Xo1qmzLmKC03FPyq-tBQw


 

Il libro di Gianfranco Vitale racconta con la giusta enfasi e passione umana di padre alcuni episodi significativi della sua vita con il proprio figlio.

Come tutte le narrazioni che riguardano i propri figli autistici anche questa è permeata dalla drammaticità, dalle inenarrabili sfibranti fatiche, dalle immense difficoltà e soprattutto dalla profondissima solitudine, tutti fattori questi che sono costanti e senza fine. Perché mentre per il padre e la madre che hanno un figlio neurotipico tutto ciò è destinato a finire con il giungere dell’età adulta, invece i tanti Gianfranco scoprono ben presto che tutto ciò è senza fine con un futuro a dir poco incerto e nebuloso. E vivono la loro vita in una sorta di equilibrio instabile su una corda tesa sopra un precipizio.

Credo che non sia più necessario spendere ulteriori parole per spiegare al mondo dei cosiddetti neurotipici che la realtà esistenziale dell’autismo è difficile e che i genitori, soprattutto quando sono soli, si trovano ad affrontare condizioni e situazioni che qualsiasi essere umano avrebbe difficoltà a gestire.
Invece devono essere spese ancora molte parole, purtroppo, per sottolineare che compito degli operatori dovrebbe essere quello di supportare e consigliare per alleggerire i problemi, non di aumentare le difficoltà con soluzioni di difficilissima comprensione e astruse nella concretezza dell’efficacia.

Ma questo spesso non accade anzi accade l’esatto contrario.

Conosco Gianfranco da tempo e so quanto impegno ha prodotto nei confronti del proprio figlio, conosco le sue cadute e le sue “resurrezioni”. Quello che si può dire di Gianfranco è che non ha mai perso la speranza nè ha mai smesso di lottare per raggiungere una qualità di vita migliore per sé, per il proprio figlio e, in fin dei conti, anche per i figli degli altri.

È facile talvolta giudicare i genitori dall’esterno, collocandosi e arroccandosi nelle alture di un’altezzosa conoscenza, più o meno ammantata di scienza, ma provate voi a vivere con accanto un figlio autistico ad analizzare i suoi comportamenti e capire cosa fare e come farlo senza entrare in crisi, senza avere momenti di sconforto e disperazione.

Nel racconto il papà ne esce come una figura tragicamente eroica, piena di dubbi e di domande senza risposta ……  una persona nei cui confronti non si può non provare un profondo sentimento di empatia e di pietas latina.

Noi cosiddetti specialisti dovremmo leggere con più attenzione questi racconti più dei testi che raccontano di autismo, libri spesso scritti da qualcuno che ha conosciuto l’autismo solo leggendo libri scritti da qualcun altro, senza però “sporcarsi” le mani con le vite vissute.

Bisogna, quindi, imparare a star accanto ai genitori senza se e senza ma, accogliendoli e non giudicandoli, ma soprattutto ascoltandoli, perché si impara sempre dai loro racconti!

https://www.superando.it/2019/09/17/lidentita-invisibile-essere-autistico-essere-adulto/

Gentile dott. Vitale

i suoi libri mi hanno veramente colpito e fatto molto riflettere sulla vita delle persone. Oltre a questo, che forse è scontato perchè raccontano storie di persone che hanno qualcosa da dire, li ho anche trovati molto ben scritti e spero che le mie parole sull'indice abbiano almeno in parte interpretato i messaggi che nascondeva. I suoi libri, che sono poi il punto di partenza (anche se inseriti per ultimi nell'articolo) dell'intero articolo, sono in una compagnia che spero piaccia, che include Sacks e Foer.

Armando Genazzani

 

Clicca qui per leggere la recensione.

 

 

 

 

 

 

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Durante una vita

Scritto da Super User. Postato in Libri

"Durante una vita” comincia con una fiaba. Perché? Semplice: i suoi protagonisti fanno riferimento a personaggi che pur vivendo nella realtà possono, attraverso l’artificio letterario, stimolare più facilmente la fantasia dei bambini, a coloro i quali, cioè, come nel caso di Gabriele, è stato chiesto di pagare il costo più elevato degli errori commessi dai cosiddetti “grandi”.

In effetti questa favola l’avevo pensata per mia figlia Ileana, cui l’intero racconto è dedicato, oltre che naturalmente a Gabriele: il protagonista assoluto della storia come lo è, quotidianamente, della mia esistenza.

Attraverso questo lavoro non ho alcuna ambizione particolare, se non quella di lasciare loro un segno dei miei sentimenti, per modesto che sia.

Se, poi, Altri vorranno leggerlo non è da escludere che potranno trovare elementi di riflessione e di attenzione a proposito di tematiche di cui, purtroppo, si parla oggi - generalmente - in modo episodico, pietistico e superficiale, laddove ben diverso dovrebbe essere l’approccio e il coinvolgimento della società civile!

La testimonianza che chiude il racconto (scritta da un ragazzo affetto da disturbi psichici di quindici anni, che ha frequentato la scuola in cui insegno), di cui riproduco l’originale, è, invece, una sorta di limpido fiume nelle cui acque ciascuno di noi - se crede - potrà specchiarsi. Ma è anche, forse e di più, un pesante atto d’accusa.

Sento la necessità di concludere questa breve presentazione ringraziando quanti hanno reso possibile la pubblicazione del libro, a partire dall’editore Giuseppe Verriotto che mi ha dedicato una poesia: amici stupendi, che amorevolmente mi hanno aiutato a completare quella che, per un dilettante come me, alla prima esperienza, è stata un’autentica - seppur necessaria e sofferta - fatica!

 


 

 

Arrampicarsi sul tuo specchio

non solo non sali

ma devi affrontare anche

lo sguardo della tua disperazione

che non si stanca di rinfacciarti

che si può solo rompere...

... tutto questo mentre tu

invanamente sudi!

Ed io comprendo la tua bestemmia

ma scusami se non la condivido

in me vive una sola speranza

quella che tu capisca che

il caso non esiste, esso

è solo la scusa dei più deboli,

a me fa male pensare mio fratello

debole, mi è più facile crederlo

il prescelto per un messaggio.

... Il dolore? E' il prezzo!

E noi sappiamo che la vita è il miglior

gioiello che Dio poteva darci.


La mia esperienza a scuola l'ho visuta cosi........

Io non mi aspetavo niente di tutto ciò e in vece i miei proffessori mi anno aiutato veramente tanto.

E la proffessoressa di sostegno mi ha seguito fino in fondo.

Solo un proffessore di elettro non siamo andati dacordo perche la sua materia lo trovata stupida e durante la fine dell'anno scolastico mi sono a corto che la materia stupida e la più importante, è anche mia la colpa perche non ho seguito dall'inizio.

Sono stato stupido perche se mi pociano non ne colpa di nessuno e soltanto colpa mia che non mi sono impegniato dall'inizio dell'anno scolastico e perciò ringrazio tutti i proffessori che mi anno seguito tutto l'anno, è ringrazio lo stesso anche qualche proffessore che non mi anno aiutato. I proffessori che anno seguito il mio problema sono stati la prof..[...], prof [...] e la sistente [...].

Mi e piaciuto lavorare sui panelli anche se o fatto , 2 impianti.

Con i miei compagni non siamo proprio andati da cordo perche cera qualcuno stupido e cera qualcuno sveglio. Il preside ma da lui non mi aspetavo niente ma anche lui ha dato una colaborazione a darmi una mano per andare avanti. Non mi e piaciuto i svolgimento dell'anno scolastico. Il mio futuro a lora ancora non lo so come andra a finire.

* Testimonianza di un allievo autistico

 

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Mio figlio è autistico

Scritto da Super User. Postato in Libri

Un padre racconta la relazione delicata con un figlio autistico, Francesco, che vorrebbe condurre verso un'autonomia difficile da raggiungere.

Chiede aiuto ai familiari, ai vicini, alle associazioni, alle strutture preposte, e troppe volte non l'ottiene. Talvolta fa da scherno l'invisibilità degli interlocutori, altre una certa presunzione di quanti tendono a promuovere anzitutto se stessi. Può accadere addirittura che lo strumento che dovrebbe sollevarlo da un compito così improbo finisca col colpevolizzarlo!

Il libro non è una denuncia, perché è un atto d'amore verso Francesco, ha però il merito di rivelare una società, la nostra, dalle alte dichiarazioni e dalle modeste realizzazioni.

Una vicenda umana carica di intensa passione civile, in cui l'esperienza di Francesco è rivisitata con pudore e senza inibizioni. Vi si colgono l'angoscia, il tormento, la rabbia, persino la rassegnazione... Ma anche la voglia e il bisogno - nonostante tutto - di ribellarsi e lottare, con fatica e grandissima dignità.

Un racconto che rivela che siamo fatti male. Ma anche che si può e si deve cambiare.

 


Ecco un libro che fa riflettere. Un libro mai lacrimevole, ma pieno di verità, che racconta la storia di un giovane con autismo, simile a quella di tanti ragazzi con autismo, per i quali momenti di serenità per un traguardo raggiunto si alternano a periodi pieni di angoscia. Non ci sono miracoli da raccontare, ma c’è qualcosa di molto importante: il fatto che l’autore sia un insegnante, e quindi un educatore di professione, gli permette di giudicare con lucidità e competenza quanto succede intorno al figlio, di fare critiche e di dare suggerimenti, di esigere con consapevolezza quanto è suo diritto ottenere: il libro diventa così un utilissimo strumento su cui po amo imparare sia noi genitori, che gli operatori che hanno in cura i nostri figli. Ma la piacevolezza di lettura fa sì che sia un libro in cui tutti possono trovare spunti interessanti e di grande respiro.

 

Liana Baroni
Presidente Angsa Onlus 


Ho deciso di recensire questo libro perché l’Autore è riuscito con semplicità, chiarezza e passione a portare il lettore nel “mondo” dell’autismo. Con un scrittura appassionante  e priva di retorica, egli (o nome e cognome) ci porta per mano a comprenderne la complessità e le difficoltà senza pietismo ma, al contrario, con uno sguardo di speranza al futuro.

Questo libro può essere considerato un lavoro utile per far comprendere a tutti, anche a chi non ha figli o persone care disabili, l’importanza dell’integrazione sociale delle persone autistiche, ed il contributo che possono dare alla società se messe in condizione di farlo.
In tal senso appare di fondamentale importanza la definizione  ed attuazione di un programma educativo pensato per le esigenze di quel particolare individuo, e della collaborazione che è importante vi sia tra la famiglia e l’eventuale struttura che ospita la persona autistica.
Da ogni pagina traspare l’amore di un padre per suo figlio, un padre che non si arrende alle difficoltà e lotta affinché il suo Francesco abbia una vita più autonoma e piena possibile. E’ un libro che non vuole dare risposte, ma piuttosto suggerire una riflessione su alcuni temi delicati che fanno parte della vita di chi è autistico, quali l’ eventuale scelta di un tutore o la sessualità.
Il messaggio finale che sembra giungere è che, nonostante le problematicità di varia natura che le persone autistiche e le loro famiglie affrontano quotidianamente e nel corso degli anni, è possibile mantenere la fiducia, la speranza e la volontà di lottare e di crescere assieme al proprio figlio autistico, dandogli amore e ricevendone altrettanto in cambio.
Nel modo di vedere comune le persone con autismo e i loro genitori sono considerate un problema per la collettività e un costo per la società. La testimonianza di Gianfranco Vitale costituisce invece un esempio di come tali persone siano invece una ricchezza e una lezione di vita per tutti coloro i quali credono di essere normali in un mondo in cui la NORMALITA’ E’ SOLO UNA COMODA E FACILE ASTRAZIONE PER FARCI SENTIRE “AL POSTO GIUSTO”. Magari, citando e parafrasando G. Gaber per far finta di essere “sani/normali”.

 

Lucio Moderato

Psicologo – Psicoterapeuta

 


Quel particolare insieme di libri sull’autismo che è il gruppo dei libri scritti da genitori si arricchisce continuamente di nuove opere. Sono opere in cui solitamente prevale l’aspetto della testimonianza, con un risvolto affettivo molto marcato, sia che si ponga l’accento sulle sofferenze e sulle difficoltà, sia che si voglia enfatizzare l’affetto che il genitore nutre per il figlio disabile, fino a  giungere in certi casi a considerare la disabilità del figlio un dono del cielo, uno strumento della propria auto-realizzazione. Si tratta dunque di un gruppo molto eterogeneo, sia dal punto di vista della qualità della scrittura, sia da quello della natura della testimonianza resa, sia infine da quello della competenza sull’autismo in generale posseduta dagli autori. L’ultimo libro di Gianfranco Vitale, Mio figlio è autistico (Vannini 2013), all’interno del gruppo in questione occupa un luogo eminente. Il libro è una testimonianza ampia, sostenuta da un patrimonio di conoscenza, esperienza e riflessione accumulato nel corso dei trent’anni di vita del figlio, Francesco, che insieme al padre è il protagonista della vicenda. E non è una testimonianza come tante, perché Vitale si confronta con le strutture sociosanitarie e i loro deficit culturali sull’autismo, con le associazioni e le loro prassi (o disprassie), con le cooperative e le comunità: insomma, con tutto il milieu che ben conoscono i genitori di una persona con autismo che passa attraverso l’infanzia, l’adolescenza e la prima età adulta, imbattendosi in una serie di crescenti incomprensioni del suo modo di essere e delle sue esigenze, per arrivare a sperimentare una vera e propria negazione della sua vita, come dice il sottotitolo del libro. È anche una testimonianza che manifesta una buona qualità narrativa, tanto da risultare una sorta di romanzo-verità.

 Il libro pone una questione radicale. Quando, infatti, si può dire che una vita umana sia negata? Può essere negata come pura e semplice vita, quando l’essere umano viene ucciso, ma può essere negata anche come umana, quando viene privata di ciò che rende umana una vita, ad esempio eliminandovi qualsiasi traccia, anche la minima, di esperienza della libertà. Può essere negata come umana anche mediante il non riconoscimento delle esigenze singolari connesse ad un modo di essere dell’umano, di questo concreto essere umano, il non riconoscimento della sua specificità irriducibile, dei suoi codici e delle sue limitazioni essenziali.  Questo è il tipo di negazione della vita che hanno subito e continuano a subire, giunte all’età adulta, molte delle persone cui è stata applicata l’etichetta dell’autismo. Soprattutto quelle che appaiono più gravi, che hanno un ritardo cognitivo, che non parlano o presentano forti limitazioni nel linguaggio, che manifestano problemi comportamentali e non sono in grado di vivere negli ambienti sociali consueti, e meno che mai di condurre una vita indipendente. Rinchiusi negli istituti, senza spazi adeguati e possibilità di movimento, e senza stimoli che li aiutino ad uscire dalle loro stereotipie, costoro vegetano in uno stato di sedazione permanente, mentre i loro organismi devono smaltire dosi quotidiane di farmaci di ogni genere. Finiscono per vivere una vita larvale, spettrale, priva di dignità e di senso. Quella del senso, della sua attribuzione e condivisione, che nell’autismo è il problema fondamentale, nelle istituzioni che si occupano di autismo rimane una domanda che non solo non trova una risposta, ma che non viene neppure adeguatamente formulata. Questo anche per il semplice fatto che le istituzioni che si occupano di persone con autismo hanno dell’oggetto della loro attenzione, cioè dell’autismo stesso, una conoscenza superficiale, precaria, e qualche volta del tutto priva di fondamenti.

Quello di Vitale è il libro di un padre. Qui, a differenza di quel che avviene nella maggior parte delle famiglie in cui entra l’autismo, è la madre ad essere latitante, ad essere inadeguata anzitutto davanti alla necessità di comprendere l’autismo del figlio, e quindi il figlio stesso. Il padre qui prende sulle spalle il figlio – è l’inverso di Enea -, ma il suo lungo cammino non sembra godere della protezione di una dea. Una fatica immane, con momenti di felicità, ma soprattutto con grandi angosce, sofferenze e incomprensioni da parte di chi dovrebbe comprendere e aiutare. Il messaggio infine è chiaro: anche a parità di risorse impiegate, la vita dei soggetti autistici potrebbe essere molto più umana e ricca di senso se la conoscenza dell’autismo in coloro che operano, a tutti i livelli, con le persone con autismo fosse maggiore. Se non si coglie l’autismo dall’interno, ogni sforzo sarà vano, e le vite delle persone con autismo continueranno ad essere negate. Quella del libro di Vitale è una grande lezione, che dovrebbe essere fatta ampiamente conoscere.

 

 Fabio Brotto

Presidente Autismo Treviso Onlus

  


Un altro libro sull’autismo. Scritto da un genitore. Un’altra testimonianza di vite sofferte.

Questo libro è qualcosa di diverso, di più. La testimonianza c’è, ed è forte e sovente prende allo stomaco, ma l’Autore, che sulla sua esperienza di padre separato che si trova a dover gestire, quasi sempre in solitudine, il carico di un figlio autistico che cresce, e da ragazzo diventa adulto, ha già scritto, ci offre anche e soprattutto uno strumento di riflessione sulle barriere che si alzano non solo attorno alla persona affetta dalla sindrome ma anche a chi se ne occupa e vorrebbe garantire, a lui e a sé stesso, una vita dignitosa e magari qualche momento di serenità. Una testimonianza asciutta e dura, ma molto lucida e fondata.

Il tema centrale è quello di cosa si fa per gli autistici adulti, e della conseguente risposta che in molti casi si da’, drammaticamente significativa: l’istituzionalizzazione.
La scelta di accettare che il proprio figlio, non più bambino o adolescente, passi buona parte della sua vita in una struttura (che nome, dal suono tecnico ma gelido) è sovente obbligata, quando la famiglia, in molti casi indebolita dalla tensioni e incomprensioni che affrontare un dramma di queste dimensioni comporta, non ne regge il peso. Ma questa scelta è anche, sovente, accompagnata da un inziale senso di fiducia verso le istituzioni, che dovrebbero (potrebbero?) farsi carico di ciò che per i singoli è troppo difficile: progettare un percorso non solo di contenimento e si potrebbe dire guardiania, ma anche educativo, che consenta una crescita della persona autistica a partire dai suoi limiti, che sono biologici ma sono anche segnati dalle relazioni, positive o negative, con gli altri umani.
Invece spesso succede che queste speranze siano frustrate, e che ad esse subentri la disperazione o la passiva rassegnazione.
Vitale analizza, a partire dal proprio vissuto, i limiti dell’approccio delle comunità residenziali, troppo spesso vincolate alla scarsità di mezzi e risorse, al di là della buona volontà dei singoli operatori. Mette però in chiaro come non sia tutto scontato, e che in molti casi manchi anche la volontà di fare quello che si potrebbe. Uno dei nodi affrontati dal libro è la generale carenza di piani abilitativi razionali e organici: la difficoltà di educatori e medici a confrontarsi e a costruire un progetto comune; il rinchiudersi di ciascuno nel proprio ruolo e nel proprio specialismo, come se il problema fosse semplicemente tecnico, e non ci fosse in ballo il futuro di un essere umano. L’approccio farmacologico, assolutamente necessario, non tiene in molti casi conto delle reazioni della persona, del contesto in cui vive, della necessità di monitoraggio e adattamento continui. La disponibilità di una notevole e continuamente crescente mole di conoscenze scientifiche non si traduce in migliore capacità di intervento, anche con approcci specifici alle varie forme che assume quello che viene definito lo “spettro dei disordini autistici”. E così il genitore si trova sovente di fronte ad un dialogo fra sordi, ad una sequela di atti burocratici, di decisioni prese senza sufficiente informazione su chi le deve subire, e senza quella comunicazione con genitori e operatori che potrebbe fornire strumenti di intervento meno violenti e devastanti.
E la risposta è spesso simmetrica: il libro parla, con grande sofferenza e lucidità, della violenza che la persona autistica può esercitare su di sé e su chi gli sta intorno, quando non vede via d’uscita alla propria infelicità. Perché questo avviene? Perché un padre deve portare a lungo, forse per sempre, i segni di queste crisi? E’ tutto inevitabile e la soluzione sta solo nella sedazione?
Vitale/Virglio ci accompagna in un viaggio nei vari gironi di quell’inferno che si chiama autismo. Non ci fa prendere scorciatoie, né propone miracolose soluzioni. Prova a proporre e riproporre, caparbiamente, quel qualcosa in più che si potrebbe fare, quell’attenzione che sovente manca. Non è un libro facile, ma molto, molto utile.

Davide Lovisolo

Docente Politecnico di Torino

 

Una storia vera in cui l'handicap non è raccontato dal punto di vista scientifico, bensì umano, volutamente non specialistico, doverosamente accessibile a tutti, con ricchezza di riscontri oggettivi.

Un libro che invita a far riflettere coloro che sentono forte il bisogno di misurarsi concretamente con i temi della solidarietà, del rispetto della diversità, del vero amore per il prossimo.

 

 

 

 


Il libro è l’autobiografia di un professore di scuola media superiore, nato nel 1949 a Catanzaro, laureatosi in scienze politiche a Roma e stabilitosi poi a Torino.

Il libro inizia in modo godibile e accattivante, col racconto delle  marachelle dei ragazzini che fumavano le prime sigarette e marinavano la scuola ritrovandosi al locale cinema che offriva pellicole vecchie e usurate a studentelli squattrinati, dell’accesso all’università, prima negato a chi non aveva fatto il nobile liceo, poi reso possibile da leggi meno restrittive e di tante altre cose che fanno parte dei ricordi di tante persone a lui coetanee. 

Ad un certo punto però il focus del racconto diventa il figlio Gabriele, primogenito, desiderato e amato, ma che presenta, agli occhi sofferenti del padre, uno sviluppo totalmente anomalo rispetto ai coetanei

“Quando al pomeriggio andavo a prenderlo, lo trovavo- di solito- solo, confinato in un angolo anonimo, lontano dal centro della stanza dove stavano i suoi compagni, con i loro giochi e i loro sorrisi”

La speranza che le cose si risolvano da sole con la crescita si rivela illusoria e, alle elementari, il padre percepisce con lucidità l’esigenza che il figlio debba avere un’insegnante di sostegno. E già questo segna l’inizio del conflitto con la madre, che non si vuole arrendere alla triste evidenza. 

Anche il conflitto con la moglie non si risolve col tempo, ma è il primo segno di una  discordia che nasce  dal diverso atteggiamento nei confronti dei gravi problemi del figlio e che porterà prima alla separazione, poi al divorzio.

Anche dopo la separazione il padre continua a cercare di stare il più possibile col figlio, di capire i suoi problemi  e di aiutarlo a trovare le soluzioni che garantiscano la migliore qualità di vita compatibile con la grave disabilità, che presenta  le  tipiche caratteristiche dell’autismo. 

L’autore non cede, come tanti, alla tentazione di edulcorare la realtà, magari sottolineando isole di buone abilità e sottacendo il mare di gravi inabilità.

Racconta una lunga triste storia che arriva fino ai 25 anni di età del figlio nella sua dura realtà, fatta di pochi momenti felici, come quando Gabriele impara a nuotare e prova gusto a farlo insieme al padre, e di molti eventi tragici: la comparsa di crisi epilettiche, la presenza, che si fa sempre più frequente, di crisi comportamentali, in cui Gabriele distrugge le cose, assale chi gli sta vicino, si barrica nella sua stanza rifiutando qualsiasi rapporto con gli altri.

Buona parte del libro è dedicata al Gabriele adolescente e adulto, circondato dall’affetto del padre e della madre, che il padre ammira e apprezza, anche se la convivenza è ormai impossibile ed è stata sostituita dal rapporto con un’altra donna. 

Ma l’affetto e le competenze educative che padre e madre acquisiscono con l’esperienza e lo studio nulla possono nei confronti della gravità della malattia e del vuoto di proposte abilitative esistenti. Già a 17 anni si rende necessario mettere Gabriele in una residenza, che poi verrà abbandonata  per un’altra quando il padre si accorge che non c’è un programma abilitativi specifico, ma che si tratta per lo più di un parcheggio in cui non viene garantito neanche un minimo di igiene e di decoro.

Ogni nuova proposta non mantiene le promesse fatte. Solo alla fine Gabriele ha una nuova sistemazione che conclude il libro e dalla quale ci si attende qualche proposta innovativa  aderente alle esigenze di Gabriele. Sapremo forse nel prossimo libro se finalmente la nuova struttura manterrà o meno le promesse. 

L’interesse del libro sta proprio nel fatto che si tratta della  storia tipica di una persona con autismo raccontata dalla nascita fino all’età adulta mettendo in rilievo sia la natura della disabilità che l’impreparazione dei servizi ad affrontare le esigenze di queste persone nelle diverse età. La descrizione della realtà al naturale di una condizione che affligge tante persone e tante famiglie è il primo passo per iniziare a meditarci  sopra per trovare le soluzioni possibili già ora e per stimolare la ricerca scientifica ad affrontare questo grave problema per dare soluzioni più radicali in un futuro si spera non  lontano. 

 

Daniela Mariani Cerati 

Neuropsichiatra

 

 

Questo libro ha al centro la mia esperienza di padre di un ragazzo autistico. Ho cercato di raccogliervi i fatti più significativi, che si sono succeduti nel corso di questi ultimi anni e di raccontare i sentimenti più profondi e nascosti che hanno segnato il mio legame con Gabriele.

L'handicap visto dalla parte di un genitore e non attraverso la fredda analisi dello "studioso". Un viaggio nell'inferno di un mondo troppo spesso lontano dagli interessi della società. Per comprendere meglio, per non rimuovere in fretta episodi che non devono essere relegati nella sfera del privato, per non cadere nella rassegnazione e nella disperazione!


Se la parola “carità” non fosse stata distorta nel suo vero significato da millenni d'ignoranza, se avesse negli uomini mantenuto integri i gesti che avrebbero dovuto accompagnarli nei sentieri della vita, in questo momento l'userei. Ma la “carità” è stata annullata totalmente in gesti sporadici e distratti che non le appartengono, è divenuta sinonimo di misera pietà, e fra l'altro fugace. Non è più la parola che indicava l'amore per il prossimo racchiuso in abbracci di compartecipazione e in evoluzioni di comportamento e azioni costruite sulle basi della tenerezza, per dare a tutti il diritto alla dignità del vivere. Ed è per questo che non posso usarla, per non essere fraintesa da tutti coloro (e sono tanti, troppi) che ne hanno perso il senso.

Ma nel libro “Io e Gabriele” quanta tenerezza c'è! Quanta dignità! E c'è da inchinarsi perché nascono dal dolore. Ed è nel dolore che si scende negli inferi dell'inumana società e solo per capire che ci si può sollevare anche da questo, con la forza di ali che apparentemente, e solo apparentemente, sembrano delicate come quelle di una farfalla.

A modo mio, nei miei libri, lotto contro il concetto distorto che si ha della diversità e del “diverso”. Per me il “diverso” non esiste. E' solo il risultato di statistiche, che sono numeri, e i numeri non “sentono”, non “ascoltano”. Se nel mondo ci sono (è un esempio) un miliardo di persone in piedi e 100 persone sedute su una sedia a rotelle, il “diverso” è il 100. Se capovolgiamo i termini e diciamo che nel mondo un miliardo di persone sono su una sedia a rotelle e 100 persone in piedi, è sempre un 100 ad essere ”diverso”. Numeri: la minoranza. E la minoranza sembra non avere voce nella voce dei miliardi. 

Affermo questo con coscienza e non con superficialità, perché in me la negazione del “diverso” non vuol dire negazione dell'individuo e dei bisogni dell'individuo. Tutti gli esseri umani (fino a prova contraria, del tutto improbabile) sono individui, uguali nei diritti, ma con caratteristiche e a volte patologie differenti. Ed ogni individuo dovrebbe essere tenuto in considerazione in base ai propri bisogni, alle necessità legate al suo stato di uomo. Solo se riuscissimo ad intraprendere il cammino di queste parole potremmo aprire un varco nelle negligenze che distolgono gli occhi, e non solo, da chi si trova ad affrontare situazioni precarie, difficilissime. 

Non voglio prolungarmi oltre su questo concetto, non è il caso di soffermarmi su una narrazione che deve ancora avvenire. Voglio invece parlare di Gabriele (figlio) e di Gianfranco (padre).

Il disagio della vita di Gabriele diviene il disagio della vita di Gianfranco, e questo perché soli. La società, le istituzioni, le strutture sono punti precari che non offrono appigli validi, e vengono a modificare perfino la società più vicina a Gabriele, la piccola società della famiglia, la quale si disgrega nel difficile, dando origine a comportamenti che brancolano intorno a Gabriele stesso.

Sul filo di avvenimenti esce fuori la patologia che affligge il giovanissimo Gabriele. Le riflessioni assumono a carattere particolare, registrano come cronache dolenti (come quelle che intervallano non a caso nel libro stesso periodo da periodo) la scomparsa di illusioni e la ricostruzione di altre. S'impregnano di ricordi in un verismo che sconcerta, disorienta, eppure trasmette i valori di una vita educata nel mutamento del rapportarsi con gli altri, con “l'altro”.

“Io e Gabriele”, scritto da Gianfranco Vitale ed edito da Luigi Pellegrini, è un libro per smemorati, per coloro che non ricordano che qualsiasi dolore è sempre un dolore, e il dolore è più di un lutto, ma come nel lutto ha bisogno di sostegno, di aiuti tangibili. E' un urlo tenerissimo ma straziante quello che si leva dalle righe scritte da un uomo che apre la sua vita agli altri, perché gli altri possano capire ed aiutarlo a costruire una società nuova, dove Gabriele, o un qualsiasi Gabriele, possa assicurarsi la proclamazione del diritto alla vita nella piena dignità del vivere. 

E' estremamente importante leggere “Io e Gabriele” con il senso del tempo (il nostro) che ha determinato processi involutivi nella storicità di un disagio, e questo per i domani che verranno, per cercare di influire su futuri provvedimenti istituzionali - politici che sembrano non provare disagio nel considerare il “100” un numero, ma di trovare tante difficoltà nel ritenere giusto il bisogno di un individuo, di tanti individui, che numeri non sono, bensì uomini.

Tutti noi possiamo riacquistare la solidarietà civile, sociale, morale, per fare in modo che i livelli del nostro tempo si caratterizzino in situazioni in positivo per chi, come il padre di Gabriele, si trova ad affrontare una vastità enorme come gli abissi marini, e non è civile, o umano, lasciarlo attaccato solo alla fragilità del dolore, soprattutto se dolore di un figlio.

Patrizia Altomare

  


 

Gabriele, il silenzio della società

La lotta d’amore del padre d’un ragazzo autistico diventa denuncia contro le strutture inadeguate.

 

Quello di Gianfranco Vitale (“Io e Gabriele”, Luigi Pellegrini Editore pp.l75 13 euro), è un libro che causa sofferenza: dice il senso di impotenza di chi è convinto - e giustamente - che l’amore sia la forza capace di cambiare il mondo e lo dice senza boria ad un mondo che preferisce misu­rare il suo progresso sulla tecnologia piuttosto che sull’umanizzazione.

Un padre racconta la rela­zione delicata con un figlio autistico, Gabriele, che vor­rebbe condurre ad una sorta di autonomia. Chiede aiuto ai familiari, ai vicini, alla chiesa, alle strutture addet­te all’handicap, una sorta di carrozzone votato per statu­to alla cura del limite e... non l’ottiene. Talvolta fa da schermo l’invisibilità degli interlocutori, altre volte la pesantezza della macchina, altre volte una certa presun­zione degli stessi operatori del settore. O semplicemen­te, lo strumento che dovreb­be sollevare la famiglia da un compito che la supera, la colpevolizza.

Una struttura tende a pro­muovere anzitutto se stes­sa, non tanto a raggiungere gli obiettivi per cui è nata. L’osservazione applicata al campo dell’handicap, o del­la riforma sanitaria o in generale delle istituzioni umanitarie, toglie davvero speranza. Una struttura ricorre a tutti gli

strumenti per avere sussidi, per aumentare l’or­ganico, per ottenere agevola­zioni.

Raggiunge lo scopo per cui è sorta? Un’azienda ospe­daliera non è detto che ab­bia sempre chiaro che è sorta per servire il malato e non per distribuire stipendi.

Il libro non è anzitutto una denuncia, perché è un atto di amore verso Gabrie­le, ma diventa anche denun­cia perché rivela una socie­tà, la nostra, dalle alte di­chiarazioni e dalle modeste realizzazioni.

L’autore inquadra ogni ca­pitolo in un contesto di cronaca, detto «storie di­menticate», contesto che dà profondità alla sua vicenda familiare. La rende più che familiare; e mostra che i limiti non sono di questo o di quello, ma semplicemen­te dell’uomo.

Mentre scorrevo le pagi­ne di «Io e Gabriele» con profonda commozione, mi veniva in mente che gli antichi romani al momento della sepoltura gettavano nella fossa una manciata di polvere, dicendo “sit tibi terra levis”, che la terra ti sia leggera. Almeno in mor­te. Ma in vita si può diffon­dere un po’ di sana leggerez­za attorno a noi, in modo che l’esistenza conosca quel­la levità che la fa apprezza­re come dono.

Un tema che attraversa tutto il libro è quello della «normalità». Esiste nella no­stra società una sorta di complicità nel creare distan­za tra normalità e anormali­tà: il mito della bellezza fisica, al quale si sacrifica un po’ tutto. Spesso di una donna si dice che è bella se lo è fisicamente, magari con i tre numeri delle tre misure standard in regola. Il mito esclude. Possiamo con mol­ta superficialità contribuire all’esclusione.

Il libro di Gianfranco Vita­le fa pensare. Si preferireb­be essere coinvolti dalla bel­lezza. In questo caso il coin­volgimento è dato dal dolo­re, che rivela che siamo fatti male. Ma anche che si può cambiare.

Don Piero Gallo

 


Se conoscete la frustrazione dell’impotenza, se non vi rassegnate alla prevaricazione e all’indifferenza, leggete “ Io e Gabriele”, di Gianfranco Vitale. 
Una prosa scarna ed essenziale vi accompagna attraverso il racconto delle sofferenze di un giovane autistico e del padre appassionando come un romanzo di avventure e regalando vita e anima ad un microcosmo di personaggi familiari a chiunque abbia condiviso il tragico destino di tutti i Gabriele, dai genitori ostinati e disillusi ai comprimari che inafferrabili e distanti come meteore ne attraversano il cammino , dalla nonna che esorcizza il rifiuto con la accuse meschine , alla sorellina tenera e crudele nella sua consapevole innocenza, agli operatori del centro vanamente armati di una sollecitudine distratta contro un nemico indomabile.
Se, come l’autore, avete un figlio autistico, leggete questo libro per trovare la forza di risollevarvi dopo ogni sconfitta, per difendere la speranza di un futuro migliore dalle lusinghe della rassegnazione o dell’utopia. Leggetelo per non annegare nell’autocommiserazione, per non dimenticare i derelitti, qualunque sia il fardello che li opprime, per sublimare il rancore in una più profonda umanità. E se non avete un figlio autistico, leggetelo per comprendere, con il cuore e con le viscere, il significato delle parole discriminazione, solidarietà, sacrificio, dignità.

Donata Vivanti

Presidente di Autismo Italia - Vicepresidente di F.A.N.T.A.Si.A. (Federazione delle Associazioni Nazionali a Tutela delle Persone con Autismo e Sindrome di Asperger) - Vicepresidente e membro della Giunta Esecutiva della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell'Handicap)

 

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