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Quei genitori che superano la vergogna di avere un figlio “psichiatrico” in casa

29 Giugno, Olivero Motta

“Abbiamo tanti volontari, ma troppi padri e madri vivono ancora la loro condizione nella solitudine”, dice l’animatrice di un’associazione. Che ha fatto del proprio problema familiare una molla per diventare cittadina attiva della sua comunità

Ci siamo incrociati più volte in questi anni: convegni, incontri, cose così. Conosco bene l’associazione di cui fa parte, si può dire che l’abbia vista nascere e muovere i suoi primi passi: genitori di giovani pazienti psichiatrici che hanno deciso di uscire dalla solitudine e di mettersi insieme.

Una presenza attiva, talvolta scomoda, sempre presente quando c’è da ragionare sui servizi alle persone, quando si può cogliere anche la più piccola opportunità per sviluppare e migliorare le risposte ai bisogni pressanti dei propri cari. Sono nati così i laboratori di informatica, i gruppi di mutuo aiuto e i corsi per amministratori di sostegno, la band musicale, l’orto comune, il laboratorio teatrale e gli sportelli d’ascolto.

Nelle associazioni c’è sempre chi tira la carretta più di altri, leader naturali che s’incaricano di smuovere la ordinaria inerzia di chi ha già a che fare, ogni santo giorno, con gli straordinari sforzi di star dietro a un figlio con problemi di salute mentale. Lei ha sempre fatto parte di quel gruppo di persone più attive delle altre, ma io l’ho sempre percepita come in seconda fila: cortese, sempre presente, ma defilata, silenziosa. Questa sera, invece – forse perché non c’è l’esuberante e simpaticissimo presidente – la vedo più attiva, più partecipe.

Alla fine dell’incontro, ci avviciniamo naturalmente: come va, come non va? Mi racconta, quasi all’improvviso, del suo “ragazzo”, la principale ragione del suo essere lì, del suo darsi da fare. E’ un racconto al contempo sereno e dolente, quello di un figlio ormai adulto che da quindici anni sta in casa con i genitori e che non ha una prospettiva di vita autonoma. Mi descrive i primi sintomi, in terza superiore - “è lì che ha cominciato ad essere agitato”: le difficoltà a stare a scuola, le stranezze sempre più evidenti, la bocciatura, la perdita del ritmo “normale” di ogni adolescente. Piano piano si smarriscono le amicizie, i legami si allentano e tutto si fa dannatamente più difficile. In paese, anche oggi, in tanti lo conoscono, si fermano un attimo a salutarlo per strada, ma poi se la danno a gambe velocemente, non si sa mai.

L’unica parentesi veramente positiva in questo quindicennio è stato l’anno di lavoro procurato dal servizio per gli inserimenti lavorativi per le persone fragili: uno stage aziendale prolungato, nel corso del quale il “ragazzo” è andato molto bene. “Era un altro, come se fosse guarito. Poi la crisi ha reso ancora più difficile trovare postazioni di lavoro continuative…”, e qui la voce s’incrina solo un poco: un attimo di commozione, subito recuperato e riassorbito dalla compostezza e pacatezza di sempre.

Mi racconta della fatica che ancora oggi si fa a convincere altri parenti e genitori a uscire dalle proprie case e a condividere i problemi. “Abbiamo tanti volontari, ma troppi genitori vivono ancora la loro condizione nella vergogna e nella solitudine”.

Ci salutiamo e nell’aria persiste quel filo di malinconia e di rammarico. Quasi impossibile farsi un’idea di cosa voglia dire, soprattutto dal punto di vista emotivo e dell’autostima, avere un figlio che rimane come intrappolato nei suoi sedici anni, senza un futuro davanti.

Più facile avvertire lo spessore della cortese caparbietà di questa donna, e di quelle come lei. Che fanno del proprio problema familiare una molla per diventare cittadini attivi della propria comunità, ribaltando all’esterno la forza centripeta che li vorrebbe inchiodati dentro casa.

Mica facile. Forte.

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