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«Sono morto in un cassonetto. Non ero un senzatetto, ero solo un padre»

Scritto da Super User. Postato in Storie di Invisibili

dilei.it

Un ragazzo di non ancora trent'anni è morto all'interno di uno di quei cassonetti gialli della Caritas e i titoli dei vari quotidiani lo hanno liquidato scrivendo che era un homeless

È da quando ho letto questa notizia e come è stata riportata, che non riesco a pensare ad altro, perché non è solo il dramma della morte di un giovane uomo in un modo orribile, ma è anche e, forse, soprattutto, uno spaccato di quelle famiglie che conducono un’esistenza nella soglia della povertà, quei nuclei invisibili allo Stato, ma anche ai vicini, famiglie che, nonostante il lavoro, e nonostante una fissa dimora, riescono ad arrivare a fine mese con difficoltà, e che per pudore e con grande dignità, non cercano aiuto, tentano di “bastarsi”, ma che non sempre ci riescono.

La scorsa settimana un ragazzo di non ancora trent’anni è morto all’interno di uno di quei cassonetti gialli della Caritas e i titoli dei vari quotidiani non avendo ancora notizie certe, o forse non cercandole nemmeno, hanno liquidato quella tragedia con questi titoli “senzatetto muore stritolato in un cassonetto”, “muore stritolato per prendere un vestito usato“, “moldavo muore in un cassonetto”, “un giovane, senza fissa dimora, muore stritolato”. Come vedete bene anche voi il verbo stritolato è stato usato da tutti i quotidiani, perché colpisce l’attenzione macabra dei lettori, riporta a una situazione tragica e drammatica, apre scenari da film horror, lascia libera l’immaginazione di chi sta leggendo, ma il tutto viene liquidato con la specifica che il ragazzo, per quanto giovane, fosse un homeless, un senza fissa dimora. In alcuni titoli poi si è specificata l’etnia, allora il ragazzo in alcuni casi è diventato di origini cecene, in altri moldavo, in altri ancora albanese, come se il Paese di provenienza potesse in qualche modo giustificare o alleviare il peso di questa morte atroce.

Questo accade tra la notte di venerdì 14 e sabato 15 maggio, è da poco passata la mezzanotte quando l’uomo arriva nella zona residenziale del centro a Mestre, a due passi dal municipio, a tre da piazza Ferretto, si guarda un po’ intorno, ha una pila. Prova a entrare una prima volta, poi torna indietro, alla fine riesce a infilarsi con la testa nel box dei vestiti. Da lì, però, non uscirà più. L’allarme viene dato da un passante: sul posto arriva in pochi secondi una volante della polizia, ma gli agenti della questura possono ben poco. Mezzanotte e quaranta: accorrono anche i vigili del fuoco e l’ambulanza del Suem. Non è possibile estrarlo e allora i pompieri usano le cesoie per aprire come una scatoletta di latta il cassonetto: il ragazzo viene liberato, ma è troppo tardi. È morto. Il caso viene liquidato come dramma della povertà, e così viene riportato dai maggiori quotidiani, sia cartacei che digitali, complice il fatto che il giovane non avesse documenti con sé, addirittura qualcuno si è spinto oltre, sostenendo che avesse un complice e che, con lui, stesse rubando i vestiti usati per poi rivenderli. Come a mettere l’accento sul fatto che alla fine quella morte se la fosse anche un po’ cercata, e infatti i commenti sui social, sotto ai vari articoli andavano anche in quella direzione, fino a quando non si è scoperta la verità sull’identità di questo giovane e sfortunato ragazzo.

Non un senza tetto, non un senza fissa dimora né tanto meno un clochard. Ma un padre di famiglia, famiglia che ne aveva denunciato la scomparsa, che viveva a Mestre e lavorava alla Fincantieri. E probabilmente non aveva il denaro per comperare dei vestiti per sé o per i suoi bambini. E lì il cuore si è fermato, perché io me lo sono immaginato questo ragazzo, questo giovane uomo, questo padre di famiglia, che lavorava in cantiere, che si spaccava la schiena in turni massacranti, che era riuscito ad assicurare un tetto sopra la testa ai suoi familiari, ma non nell’impresa di arrivare comunque a fine mese, o di riuscire a comprare dei vestiti nuovi per i propri figli. E allora riesco a mettermi nei suoi panni, quando magari passando davanti a quei cassonetti ha avuto quell’idea malsana, che se solo ci avesse riflettuto un po’ di più non avrebbe portato a compimento, lo vedo mentre esce dal turno serale e pensa di fare una sorpresa ai suoi piccoli, tornando a casa con qualche abito usato, ma che per loro è come fosse nuovo, è comunque un regalo. Chissà cosa sperava di trovarci quel giovane padre in quel maledetto cassonetto, un paio di jeans in miniatura o una t-shirt tutta colorata, così tenuta bene da sembrare appena uscita dal negozio, perché io ne sono sicura, io ne sono certa, è per i figli che si fanno le pazzie più grandi, quelle che in un primo momento ti sembrano idee geniali, e che poi si rivelano delle trappole mortali.

E chissà quando avrà capito che non ci sarebbe stato un ritorno, che la sua vita finiva quel giorno, che non ci sarebbero stati più i turni in cantiere, e gli abbracci dei suoi bambini, chissà quando avrà realizzato che quel cassonetto si sarebbe trasformato nella sua ultima dimora, e non perché lui non ce l’avesse, ma solo perché quel contenitore di abiti all’improvviso si era trasformato in un contenitore di morte. E allora vi prego smettiamo di chiamarlo il moldavo, il ragazzo albanese, quello di origini cecene o lo straniero, perché quello che è morto era solo un padre, un giovane padre, con una famiglia e dei figli che aspettava il suo ritorno, che però non non ci sarà più. Mai più. Un anno fa esatto a rimanere incastrato e a morire in uno di quei maledetti cassonetti fu Karim Bamba, un bambino che di anni ne aveva dieci e cercava soltanto di essere uguale ai suoi coetanei, almeno nei vestiti, ma ad ucciderlo non è stato solo quel congegno terrificante che scatta all’improvviso, ma la povertà estrema in cui viveva. E allora non giriamoci dall’altra parte, perché no, non si tratta di buonismo, si tratta solo di umanità, quella che tutti noi dovremmo usare prima di parlare a vanvera, prima di emettere sentenze su fatti che non conosciamo, prima di classificare una morte da prima pagina o da trafiletto solo in base alla nazionalità O al colore della pelle.

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