Gabriele, il silenzio della società
La lotta d’amore del padre d’un ragazzo autistico diventa denuncia contro le strutture inadeguate.
Quello di Gianfranco Vitale (“Io e Gabriele”, Luigi Pellegrini Editore pp.l75 13 euro), è un libro che causa sofferenza: dice il senso di impotenza di chi è convinto - e giustamente - che l’amore sia la forza capace di cambiare il mondo e lo dice senza boria ad un mondo che preferisce misurare il suo progresso sulla tecnologia piuttosto che sull’umanizzazione.
Un padre racconta la relazione delicata con un figlio autistico, Gabriele, che vorrebbe condurre ad una sorta di autonomia. Chiede aiuto ai familiari, ai vicini, alla chiesa, alle strutture addette all’handicap, una sorta di carrozzone votato per statuto alla cura del limite e... non l’ottiene. Talvolta fa da schermo l’invisibilità degli interlocutori, altre volte la pesantezza della macchina, altre volte una certa presunzione degli stessi operatori del settore. O semplicemente, lo strumento che dovrebbe sollevare la famiglia da un compito che la supera, la colpevolizza.
Una struttura tende a promuovere anzitutto se stessa, non tanto a raggiungere gli obiettivi per cui è nata. L’osservazione applicata al campo dell’handicap, o della riforma sanitaria o in generale delle istituzioni umanitarie, toglie davvero speranza. Una struttura ricorre a tutti gli
strumenti per avere sussidi, per aumentare l’organico, per ottenere agevolazioni.
Raggiunge lo scopo per cui è sorta? Un’azienda ospedaliera non è detto che abbia sempre chiaro che è sorta per servire il malato e non per distribuire stipendi.
Il libro non è anzitutto una denuncia, perché è un atto di amore verso Gabriele, ma diventa anche denuncia perché rivela una società, la nostra, dalle alte dichiarazioni e dalle modeste realizzazioni.
L’autore inquadra ogni capitolo in un contesto di cronaca, detto «storie dimenticate», contesto che dà profondità alla sua vicenda familiare. La rende più che familiare; e mostra che i limiti non sono di questo o di quello, ma semplicemente dell’uomo.
Mentre scorrevo le pagine di «Io e Gabriele» con profonda commozione, mi veniva in mente che gli antichi romani al momento della sepoltura gettavano nella fossa una manciata di polvere, dicendo “sit tibi terra levis”, che la terra ti sia leggera. Almeno in morte. Ma in vita si può diffondere un po’ di sana leggerezza attorno a noi, in modo che l’esistenza conosca quella levità che la fa apprezzare come dono.
Un tema che attraversa tutto il libro è quello della «normalità». Esiste nella nostra società una sorta di complicità nel creare distanza tra normalità e anormalità: il mito della bellezza fisica, al quale si sacrifica un po’ tutto. Spesso di una donna si dice che è bella se lo è fisicamente, magari con i tre numeri delle tre misure standard in regola. Il mito esclude. Possiamo con molta superficialità contribuire all’esclusione.
Il libro di Gianfranco Vitale fa pensare. Si preferirebbe essere coinvolti dalla bellezza. In questo caso il coinvolgimento è dato dal dolore, che rivela che siamo fatti male. Ma anche che si può cambiare.
Don Piero Gallo