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È terribile una civiltà che pianifica chi sta sopra e chi sta sotto

Antonio Giuseppe Malafarina

L’eugenetica come pratica della salvaguardia della razza nasce millenni fa, anche se il termine è stato coniato nel 1883 dal naturalista inglese Francis Galton. Figlia del suo tempo, vuoi per ragioni di sopravvivenza, vuoi per approccio evoluzionistico, è stata metodica prediletta dal nazismo, ma serenamente applicata anche dopo la seconda guerra mondiale nei civilissimi Stati Uniti e in altre nazioni.
Ora sento in questi giorni che proprio gli USA decidono che in alcuni dei propri Stati le persone con disabilità saranno sacrificate rispetto ai sani, in caso di necessità di cura per coronavirus. In molti, anche americani, si sono ribellati. Faticosamente mantengo la calma aggrappato alla storia e al buon senso.

La notizia è stata riportata qualche giorno fa da «Avvenire.it», illustrando appunto la scelta di molti Stati dell’Unione di non curare persone con diverse disabilità per consentire la cura delle altre persone. La questione ruota attorno ai ventilatori meccanici, le macchine per respirare che hanno sostituito il polmone d’acciaio. Siccome le apparecchiature non sarebbero sufficienti per tutti, a un certo punto si tratterà di scegliere e allora certe persone con disabilità verranno sacrificate.
Le Associazioni si sono ribellate, come racconta lo stesso giornale, attraverso la penna di Elena Molinari. È partita qualche denuncia in nome dei diritti civili, cioè del diritto alla vita, diritto inalienabile insito nell’uomo e garantito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Gli Stati Uniti, però, sembra siano “allergici” alle Convenzioni, tant’è che, pur figurando tra i firmatari, non hanno mai ratificato la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Loro sono oltre. Sono al di sopra.

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Tutelare tutti i cittadini: e quelli con disabilità?

Superando.it  Luisella Bosisio Fazzi *

Premetto che non sono più madre di persona con disabilità. Non lo sono più perché l’anno scorso ho perso mio figlio disabile in un tragico incidente dovuto alla sconsideratezza delle Autorità competenti a mettere in sicurezza un luogo, pubblicizzato e fortemente promosso dal punto di vista turistico, dove transitava insieme ad altri “colleghi” – così li chiamava lui – del Centro Diurno e i suoi educatori. Un’esperienza di vita comunitaria finita in tragedia a causa della disattenzione e sottovalutazione da parte di chi doveva capire e che con i suoi poteri avrebbe dovuto prevenire ed evitare ciò che è successo.

Ma non è di questo che voglio scrivere, piuttosto questa mia nuova condizione mi permette di dare attenzione alle discussioni e alle azioni di contrasto nei confronti dell’emergenza Covid-19. Non devo barattare i diritti umani di mio figlio con alcuna azione di contenimento messa in atto per tutelare i cittadini. Azioni drastiche, ma che hanno ancora un volta messo in luce la vulnerabilità di una parte di cittadini.
Tutelare quali cittadini: tutti i cittadini o solo quelli che ce la fanno da soli o ancora quelli che sono socialmente visibili?
Sto parlando delle persone con disabilità. Sì, di quelle persone che, se non ci fossero le loro Associazioni rappresentative, starebbero ancora ad aspettare e ad elemosinare un’attenzione. Se non ci fossero state le Associazioni e le loro reti nazionali (le Federazioni FISH e FAND) non ci sarebbe stata, per le persone con disabilità, alcuna citazione nei vari Decreti che il Governo – dopo il primo – ha emanato fino a ieri sera. E non dico le lotte per essere ascoltati…
Sto parlando delle persone con disabilità. Sì, di quelle persone che, se non ci fossero le loro famiglie, sarebbero morte di inedia, di mancata assistenza, di mancata cura, di mancata protezione.
Sono dura, lo so. Ma è la verità.

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Scusami Ugo: potevi essere mio figlio e non ti ho visto

fonte contropiano.org, di  Maurizio Amodio *

La storia tragica di Ugo Russo, ucciso a 15 anni mentre tenta una rapina da strada, è di quelle in cui si misura la condizione disperante che un Paese assegna ai propri ragazzi e, al tempo stesso, il livello di degrado del “senso comune”.

Non parliamo solo dei poliziotti et similia che esprimono anche  sui social il proprio odio, puro e semplice, per la racaille (come la definì Sarkozy) che vive nelle periferie. Odio che spiega, prima ancora che avvengano, perché tanti “fermi” tentati sui ragazzi dei quartieri finiscano con un morto in mezzo alla strada. O nelle questure, o in caserma…

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Non esiste un atteggiamento giusto con le parole sbagliate

fonte superando.it      Antonio Giuseppe Malafarina

Parlare con le parole giuste non è uno schiribizzo di alcuni fissati del lessico. Se io dico a una persona che è un “negro”, faccio pensare qualcosa di diverso che se dico che è un “nero”, ovvero una persona nera. Le parole, con i concetti che intendono, qualche volta in maniera sottintesa, possono fare male, mettiamocelo in testa.

Ne ho parlato qualche tempo fa all’Università Cattolica di Milano, durante l’incontro Disabilità, informare con le parole giuste, valido come corso di aggiornamento per giornalisti, ma aperto a tutti. Beh, mi è capitata un’esperienza singolare.
Non era la prima volta che tenevo una lezione sul linguaggio della disabilità nei corsi di aggiornamento per giornalisti. Per merito di Alessia Bottone, brava collega veneta, abbiamo lavorato in questo senso a Verona e lavoreremo all’Università La Sapienza di Roma.
Apprezzo l’impegno di questa giovane giornalista per portare la cultura della precisione linguistica contro l’abilismo nell’àmbito dei media, perché noi giornalisti siamo fra i primi ingranaggi a muoversi nel meccanismo che dà luogo all’inclusione sociale. Il processo di diffusione della mentalità dell’inclusione ricade su tutta la comunità, coinvolgendo primariamente chi fa comunicazione, perché senza un uso corretto della comunicazione, non si può educare la società all’accoglienza.
Prima di dire dell’aneddoto per cui nasce questa mia riflessione, un breve sunto del mio intervento può servire a rendere l’episodio più comprensibile.

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Scuola Gli studenti con disabilità parteciperanno alla stesura del PEI

fonte vita.it

All’interno del Gruppo di Lavoro Operativo, che elabora e approva il PEI, «è assicurata la partecipazione attiva degli studenti con accertata condizione di disabilità in età evolutiva ai fini dell’inclusione scolastica nel rispetto del principio di autodeterminazione». È questa la principale novità del correttivo del decreto 66/2017, che va nella direzione della attuazione della Convenzione Onu. Le criticità? Assistenti alla comunicazione e all'autonomia «nei limiti delle risorse disponibili», la data strettissima del 1° settembre 2019 e la possibilità di confermare l'insegnante di sostegno non di ruolo solo alla scuola dell'infanzia e alla primaria.

 Il principio di autodeterminazione dell’alunno con disabilità entra nella scuola. A dieci anni dalla ratifica da parte dell’Italia della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, il diritto all’autodeterminazione di quell’articolo 3 della Convenzione trova concretezza nel mondo della scuola: non solo scrivendolo in una normativa, come principio (a questo livello il decreto 66 lo menzionava già nell’articolo 1), ma dandogli concretezza: dal 1° settembre 2019, con l’entrata in vigore del decreto correttivo del decreto 66/2017 sull’inclusione scolastica - approvato lo scorso 31 luglio - lo studente (quindi forse si intende l’alunno delle scuole secondarie) parteciperà direttamente alla redazione del profilo di funzionamento e alla redazione del PEI, così come i suoi genitori.

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