La diversità che fa paura e il male "di convivere"
1 Novembre, Tania Sabatino, fonte superando.it
Non posso non chiedermi da dove nasca quella ferocia (e insensatezza) che spinge un ragazzo di 24 anni a spappolare l’intestino di un adolescente un po’ in carne, forse troppo distante, nella mente dell’aggressore, da quegli stereotipi longilineicon le cui immagini ogni giorno i mass media ci bombardano. La chiave di volta è, credo, la difficoltà profonda a rapportarsi alla diversità, quale che sia il volto che essa assume.
Nel caso di Vincenzo, a questa incapacità si reagisce con lo scherno, nato dal considerare come inferiore un altro essere umano, da posizionare a un livello basso nella sua gerarchia fatta di esseri umani più dotati. Un ragazzo in carne e quindi, ai suoi occhi, marchiato dalla diversità. Un’inferiorità così palese, per lui, da portarlo a decidere di “umiliare” un ragazzino, Vincenzo (beffa del destino: carnefice e vittima hanno lo stesso nome), più piccolo di lui di ben quattordici anni, nel corpo e nelle emozioni, “colpendolo” (quasi una lapidazione simbolica) con parole offensive e arrivando a passare alle vie di fatto più brutali.
Per sottolineare poi la sua sedicente superiorità, l’aguzzino di Vincenzo chiama a testimone la “sua” comunità: uno dei tre (i complici hanno rispettivamente 25 e 30 anni) tiene fermo il quattordicenne, mentre l’altro filma quello che sta avvenendo. Per lui è uno “scherzo”, per dimostrare la sua superiorità, la sua supremazia, per comprovare che la “diversità”, quale che sia la forma che assume, può essere vituperata, negata, annullata, come storicamente si è sempre fatto, prima con la soppressione a livello fisico e poi con quella sociale (con varie forme di isolamento forzato), come ben ricorda ad esempio il sociologo Claudio Roberti nel suo libro L’uomo a-vitruviano (edito da Aracne nel 2011).
Perché se io sono convinto che è legittimo “stare sopra di te”, perché sono superiore, allora mi sento autorizzato a decidere della tua vita e a farti anche quelli che per me in fondo sono “scherzi”, che mi servono a ribadire la mia supremazia.
Il nucleo del problema non è se Vincenzo pensasse di fare uno scherzo o meno (io credo che lo pensasse, sebbene fosse consapevole che si trattava di uno scherzo “pesante” e perverso, umiliante, e per questo fosse ancora più convinto di farlo), ma è a monte: come si può pensare di decidere della vita di un altro essere umano, facendo il bello e il cattivo tempo, in base a un’idea di gerarchia contorta?