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Scusami Ugo: potevi essere mio figlio e non ti ho visto

fonte contropiano.org, di  Maurizio Amodio *

La storia tragica di Ugo Russo, ucciso a 15 anni mentre tenta una rapina da strada, è di quelle in cui si misura la condizione disperante che un Paese assegna ai propri ragazzi e, al tempo stesso, il livello di degrado del “senso comune”.

Non parliamo solo dei poliziotti et similia che esprimono anche  sui social il proprio odio, puro e semplice, per la racaille (come la definì Sarkozy) che vive nelle periferie. Odio che spiega, prima ancora che avvengano, perché tanti “fermi” tentati sui ragazzi dei quartieri finiscano con un morto in mezzo alla strada. O nelle questure, o in caserma…

Parliamo anche del rovesciamento avvenuto nella “cultura politica” che si autodefinisce “democratica”, o addirittura “di sinistra”, ma che usa – senza alcun imbarazzo o senza neanche accorgersene – frasi, espressioni, giudizi presi pari pari dal gergo questurino. “Savianisti” per pigrizia mentale. Segno evidente che nessuna speranza di cambiamento sociale abita più in certe coscienze; che nessuno strumento è più pensabile per affrontare un qualsiasi problema, se non “la forza”, delegata ovviamente agli “specialisti armati” e stipendiati; che nessuna vicinanza materiale, fisica, umana, è più sentita nei confronti persino di chi – già a 15 anni – non riesce a vedere per sé un futuro e si brucia in una scorciatoia verso l’inferno. Che poi si bruci in una rapina o in una dose, fa poca differenza.

A tutti costoro, ma anche ad ognuno di noi, appare indispensabile ricordare che un “fenomeno sociale” è fatto di corpi, sangue, sogni, facce. Persone, non stereotipi.

Questa straordinaria testimonianza di Maurizio Amodio ci sembra il modo migliore per invitare tutti a pensare, prima di parlare.

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Ve l’hanno mai puntato un coltello alla gola? A me sì. Diverse volte.

L’ultimo, qualche anno fa, lo impugnava un cazzillo di quindici anni che tremava come un bambino impaurito, quando in mezzo all’incrocio di Santa Teresa, alle due di notte mi intimò: “Damme tutt’ chell’ ca tieni ‘ncuollo”, mentre l’amico più grande lo aspettava col motorino acceso dieci metri più avanti. “Pigliatell’ tu stesso. M’e ‘a accirere primma, però. Pecchè io ‘e sorde m’e fatico. Accireme e t’e pigli tu stesso. ‘O tieni ‘o curaggio, muccusiello?

L’amico capì che la cosa andava per le lunghe e lo richiamò: “Vienetenne, strunzillo. Nun si manco cazz’ ‘e fa’ ‘na rapina”.

Lo reincontrai il giorno dopo, nello stesso punto. Ma alle 4 del pomeriggio, alla luce del sole e con la strada affollata. Era in sella a un motorino, fermo. E mi guardava sorridendo. Gli andai incontro e a un palmo di naso disse: “O vuo’ ‘nu passaggio? Addò vaje?

A Piazza Dante, jamm’, damme ‘stu passaggio”. All’incrocio del Museo gli girai l’orecchio fino a fargli male: “Che è? Nun ‘o tieni ‘o curtiello, ogge? Nun ‘o faje, l’ommo?

E no, ja’… M’e ‘a scusà. Era ‘na prova ‘e curaggio, stanotte. So’ cose ‘e ‘uagliuni

Come ti chiami?” “Roberto”.

E arò si?” “Abbascio ‘e Funtanelle”.

Robè… Lo sai che facevo io, a 15 anni? Correvo dietro alle ragazze. Chest’ se fa, a 15 anni. Dincell’, all’amico tuojo: ‘a prossima vota le cosce non te le spezzo a te, ma a lui. Simm’ d’o stesso quartiere. Ti tengo d’occhio.
Vir’ ‘e turnà a scola. Pe’ fa’ l’omm’ ce sta tiempo. Non ti far fottere la tua bella età, Robè, che poi nessuno te la ridà più”.

Lo rivedo ancora, ogni tanto. Gli lancio occhiate minacciose e lui sorride, come a dire “Tutt’ a posto”.

Di Vico Paradiso a Napoli ce ne sono due: uno sta ‘ncopp’ ‘a Salute e coi Quartieri Spagnoli non c’entra niente. L’altro è un ponte lanciato fra due colline grondanti cristianesimo primordiale da ogni buco di tufo: Montesanto e Montecalvario. I nomi altisonanti servono a dare parvenze di miracolo a vicoli che stanno appesi alla montagna friabile come Dimaco e Tito alle croci sul Golgota.

All’angolo del vicolo, appare addirittura il panorama del centro storico visto dall’alto di un groviglio messo ai margini fisici del reale. E giù ai Gradini del Paradiso, accanto alla stazione della Cumana, un monumento di transenne e scale mobili da sempre scassate celebra la grande truffa della vecchia politica dei colletti bianchi.

Uno dei tanti cenotafi eretti in nome dell’affarismo spendaccione di fine ‘900. La refurtiva tangibile dei veri ladri: quelli in giacca e cravatta.

In mezzo a queste venuzze fragili che da secoli s’intrecciano come un macramè piroclastico vive il meglio e il peggio di Napoli. Un meglio e un peggio che quando smettono di dialogare e guardarsi negli occhi scavano un solco da cui, prima o poi, zampilla sangue. Inevitabilmente.

Napoli ha una geografia complicata di periferie sociali sparse come macchie solari in pieno centro. Ad ogni metro la città contraddice sè stessa. Questo è il suo fascino, ma anche la sua straziante condanna.

Devi leggerla e decifrarla di continuo. Districarla come una rete da pesca che continuamente torna ad aggrovigliarsi. È una città che ripetutamente ti mette di fronte l’altro, il diverso da te, il tuo opposto.

E se smettiamo di scrutarci l’un l’altro e pazientemente interpretarci e reimparare di continuo l’altrui linguaggio, allora la modernità e il cieco potere centrale avranno la meglio, cancellando Napoli dalla mappa delle ultime speranze per il genere umano di convivere fra diversi.

L’altra notte un ragazzo di 23 anni ha ucciso un ragazzo di 15, nato e cresciuto a Vico Paradiso. Due creature che insieme neanche pareggiano la mia età intera.

Caino e Abele sono sbattuti l’uno contro l’altro. Franti e Garrone si sono distrutti perchè non si conoscevano. Garrone non conosceva il basso dove Franti viveva col padre disoccupato e nessuno gli ha mai spiegato che la fine della giustizia sociale produce odio, violenza, vendetta. Che il conto di decenni di politiche criminali lo pagherà anche lui, condannato a trascinarsi un fardello di colpa che lo tormenterà per tutta la vita. E a Franti nessuno ha mai mostrato che puliti si può vivere, dalla parte giusta dell’orchestra umana, in armonico accordo con tutti gli altri musicisti.

Ma devi vederlo, lo Stato. Non da lontano, come un corpo estraneo di una donna perfetta che sai che non ti si concederà mai. Perchè se lo Stato ha solo ed unicamente la sembianza della disoccupazione, dell’ingiustizia e dei favoritismi e la tua unica scuola di vita è la palestra quotidiana della delinquenza e della prova di coraggio del vicino di casa più emarginato di te, il fiume inquinato in cui nuoterai avrà un solo sbocco: la morte violenta.

Cornuto e mazziato. Senza diritti e col destino già segnato.

Mi hanno ammazzato un figlio che neanche ricordavo di avere. Ad ucciderlo è stato un fratello di sangue. E la colpa è solo mia. Di tutte le volte che l’ingiustizia sociale, le sperequazioni e le iniquità politiche e le disparità esistenziali li allontanavano e li rendevano nemici e stranieri nella mia stessa, magnifica, martoriata terra.

E io stavo girato dall’altra parte.

Ad accontentarmi dei panorami.

Ugo Russo è una sconfitta tutta mia, tutta nostra. Di una comunità civile che ha scelto la rimozione come unica via di salvezza. E di uno Stato che ha messo deliberatamente Franti contro Garrone, eredi involontari e infelici di una stessa terra derubata, mortificata, umiliata.

Vorrei torcerti l’orecchio su un motorino, Ugo. E farti un bel cazziatone. Ma non ci siamo mai incontrati, purtroppo, figlio mio. Perchè io sono stato distratto ed egoista e ho chiuso gli occhi ogni volta che avevo il dovere di guardarti camminare per le mie stesse strade. Tu esistevi. E io ho fatto finta di non vederti.

 

 * da Identità Insorgenti