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Scuola inclusiva: anno zero

di Rosa Mauro

Scuola si, scuola no: ormai sembra impossibile sottrarsi al dibattito sulla buona scuola. Nemmeno io voglio farlo, anche perché mio figlio è ancora in età scolare. E poi: sono figlia di una Prof e parente di altre prof.. . Insomma la cosa mi riguarda da più di un punto di vista.

Ovviamente nell’ambito del dibattito sulla scuola quello sul sostegno infuria per i modi e le rivoluzioni che la buona scuola vuole assegnargli e che crede (dite udite!) scaturite dalle esigenze dei genitori. Direi, quindi, che la prima cosa è chiarire ciò che vogliono i genitori e molto più modestamente cosa voglio io, onde verificare se la buona scuola risponde alle mie esigenze, come dice di volere.

Punto 1

Voglio io che la persona che assume un ruolo di mediazione tra la classe e mio figlio sia qualificata? Naturalmente.

Peccato che “ buona scuola” questo non me lo garantisca perché, a fronte di una sedicente laurea per docente di sostegno, non chiarisce che modello di preparazione tale laurea fornisce rispetto ai tipi differenti di disabilità. Non sento e non vedo l’esigenza di una laurea specifica. Io sono laureata in lettere e a mio figlio parlo e spiego le cose. Credo che i miei colleghi nelle scuole debbano fare altrettanto, frequentando corsi e incontrandosi con esperti veri del settore disabilità, senza bisogno di una laurea specifica a tutti i costi.

Se le cose resteranno come ora e ci saranno solo due grandi categorie, disabili fisici e sensoriali e disabili psichici e relazionali, si rimarrà nell’ambito di una massificazione che non promette nulla di buono, dove tutti i disabili psichici o intellettivi o relazionali saranno trattati allo stesso modo, siano essi autistici o affetti da sindrome di Down o da disturbo disgregativo dello sviluppo. Nessuna garanzia pedagogica è garantita laddove non c’è esigenza di individualizzazione di un progetto finalizzato ad un inserimento sociale: non sembra che questo aspetto sia specificato nella buona scuola!

Voglio che la diversità comunicativa di mio figlio sia rispettata e che il progetto la rispecchi? Naturalmente.

Il fatto è che nella buona scuola è specificato che ciò deve avvenire senza aggravi per lo stato. Peccato che la maggior parte delle scuole non abbia nemmeno i soldi per la carta igienica, figuriamoci per acquistare ausili che permettano il rispetto della diversità comunicativa…

Se comunicazione ci deve essere, deve avvenire tra allievo disabile e classe. Non mi risulta che sia indicato un impegno dei docenti curricolari rispetto a tale obiettivo!

Voglio io che il percorso di mio figlio porti a progetti coerenti e inclusivi? Naturalmente.

E proprio questo è l’aspetto più inquietante della buona scuola: di reale inclusione non v’è traccia, perché si parla di una sinergia tra sostegno e strutture sociosanitarie (quali? e quanto qualificate? chi controlla i controllori?) e si parla, a quanto ho saputo, di blindare i sostegni obbligandoli praticamente a scegliere questa strada e rimanere tali, tagliando le gambe a promozioni e quant’altro. Se volete tornare alle scuole speciali non fate gli ipocriti e ditelo!

In conclusione, nella buona scuola non si parla nemmeno più di inclusione, visto che le carriere dei docenti curricolare e di sostegno sono separate, e i docenti di sostegno saranno sempre di più accomunati ai loro allievi e lo saranno, è questo il peggio, nella discriminazione.

Ho cercato invano traccia di programmi, riguardo agli allievi disabili… ma non ci sono, si parla solo di progetti con le strutture sociosanitarie… Quindi cosa imparerà mio figlio, cosa impareranno gli altri studenti disabili? La risposta è: quello che vorranno far loro imparare! Non certo ciò che gli altri allievi potranno imparare, visto che non è previsto che i progetti si facciano in sinergia con la scuola bensì con gli istituti sociosanitari.                                                    

Immagino che in Italia, al contrario che in Spagna ed in altri paesi civili, non possa esistere che un disabile relazionale o un ragazzo affetto da sindrome di down, arrivino ad una istruzione superiore o ad una laurea o diploma equivalente. In fondo, non importa a nessuno, tanto meno a noi genitori, vero? No, falso!

Non vi abbiamo chiesto questo, io NON VE L’HO CHIESTO, CHIARO? Vi ho chiesto RISPETTO e PROFESSIONALITA’, affinché mio figlio possa a tutti gli effetti diventare un cittadino della sua nazione, diritto che gli è garantito dalla costituzione.

Punto due

La laurea in sostegno può garantire professionalità?

Le nozioni di per sé non garantiscono proprio nulla, sopratutto in assenza di un controllo serio sulla qualità con la quale vengono impartite.

Un insegnante che NON abbia una preparazione superiore NELLE MATERIE DI TUTTI non può garantire una autentica inclusione, e il SUO ruolo viene in questo modo stravolto. L’insegnante che si laurea in sostegno viene di fatto descritto dalla buona scuola, e sarà percepito dall’intero collegio docenti, come un corpo anomalo che RISPONDE agli istituti sociosanitari e non ad una esigenza educativa.

Inoltre tale insegnante, costretto a vita in un ruolo che non ha sbocchi, vivrà questa situazione in maniera frustrata e inappagata; non potrà cambiare percorso qualora le sue circostanze psicofisiche mutino ( ci si può stancare o desiderare di mettere a frutto la propria professionalità in modo diverso) e - praticamente espulso dal gruppo classe - diventerà il guardiano del ragazzo disabile nella sua emarginazione.

I docenti curricolari, SENZA obblighi nei confronti dei ragazzi disabili presenti nella loro classe, non li riterranno più parte del gruppo classe, e assisteremo a quello che nella società attuale sta già succedendo: il ritorno della discriminazione del disabile, senza diritto al lavoro né all’inclusione sociale.

I disabili, che ricordiamoci sono bambini e ragazzi come tutti, con solo bisogni speciali da assolvere, non impareranno più Italiano, storia, matematica e quant’altro, nelle modalità a loro confacenti, perché nessuno controllerà che lo facciano. Nessuno VORRA’ che lo facciano.

Punto tre

La scuola non sarà più di tutti.

Con la separazione delle carriere degli insegnanti, con la riduzione dei progetti educativi dei disabili a terapie, ci dobbiamo aspettare, e senz’altro sarà così, che la scuola non sarà più di tutti, perché i nostri figli saranno meno “tutti” degli altri.

Qualcuno ha scritto: alunni di serie B. E’ poco, direi che si può dire di meglio e di più. I nostri figli SONO GIA’ ADESSO cittadini di serie B. Questo perché si è cittadini appena si nasce ed è da allora che va garantito, indipendentemente dalla disabilità, l’accesso alla conoscenza sociale, alla fruizione e all’apprendimento di quelle regole sociali che un domani dovranno e potranno garantire una vita attiva e socialmente appagante.

NEL MOMENTO in cui si nega questo diritto alla conoscenza, sollevando il corpo docente della scuola da tale compito, assolvendo i dirigenti dalla ghettizzazione che (ricordiamocelo) sta già avvenendo nelle scuole, assolvendo ragazzi e famiglie cosiddette normali dal loro OBBLIGO E IMPEGNO al riconoscimento, al rispetto e alla collaborazione, IL DIRITTO DI CITTADINANZA E’ STATO NEGATOUn corpo docente separato è come una stella sul petto dei nostri figli e quindi anche una stella sul petto nostro: non permettiamoglielo.

La mia riflessione vuole coinvolgere ora i docenti stessi: si è detto che il sostegno non può né deve essere un trampolino di lancio verso un altro ruolo. Concordo, ma tutto ciò si può fare senza obbligare ad una scelta per sempre che suona come una punizione.

Un docente che faccia il sostegno per qualche anno diventa un prof migliore e se va ad insegnare anche ad altri ragazzi lo farà con più cuore, più rispetto, più libertà. Un prof con anni di insegnamento di sostegno potrebbe diventare un preside meraviglioso, perché ha imparato che la conoscenza deve essere trasmessa a degli esseri umani e non a dei numeri; ha imparato la bellezza della diversità del genere umano che proprio la diversa abilità gli può trasmettere.

Ma un buon prof di sostegno deve sapere quando è nato Manzoni per poterne trasmettere la bellezza ad un ragazzo cieco. Deve conoscere i numeri per insegnare matematica ad un sordo, e deve conoscere Leopardi per potere trasmetterlo, perché no? a mio figlio che fa le rime estemporanee. E sopratutto deve essere un professore e non un terapista; deve aiutare alla comprensione, non negarla sol perché per i neuropsichiatri una persona con autismo a quel particolare aspetto non è interessato.

Ce ne sarebbero di altri argomenti da sviscerare ancora ma sapete una cosa? Io voglio soffermarmi su un ricordo che forse ho già ricordato, ma lo faccio di nuovo: mia madre è stata professoressa di matematica per tanti anni, e a volte si è trovata con allievi particolari e nessun sostegno.

Mi ha raccontato che uno di questi ragazzi si agitava molto durante le lezioni, ma lei aveva capito come calmarlo: quando arrivava in classe si sedeva non sulla cattedra, ma tra i banchi, accanto a lui. E lo prendeva per mano mentre spiegava. Semplice, umano, e non gli ci è voluta una laurea per farlo. Gli è bastato essere una brava prof, per la quale tutti gli allievi avevano la stessa importanza.

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