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VOLO LISBONA - DUSSELDORF : DI CHI E' LA COLPA?

di Rosa Mauro

Questa non è una cronaca della tragedia del volo da Lisbona a Dusseldorf.

Cronache su questo, in giro ce ne sono abbastanza, quella che io voglio fornire è una opinione, basata su quello che ho visto e sentito dai media.. E sopratutto su quello che NON ho visto e sentito.
Quello che ho visto, e sentito, è la rivisitazione della famosa caccia al mostro, con brevi incursioni nel concorso di colpa.
Il mostro è John Lubitz, copilota, che avrebbe fatto cadere “volontariamente” l’aereo, portandolo a schiantarsi tra le montagne.
Fin dalle prime ore, e nonostante si ipotizzasse da subito una patologia psichiatrica, il modus agendi di tutti, dalla polizia ai giornalisti, è stato quello che si usa contro i grandi criminali: perquisizioni a tappeto, in casa sua e dei suoi genitori, e interrogatori più o meno chiarificatori con ex fidanzate ed amici.
Esaminiamo questa prima contraddizione: o ipotizzi che Lubitz fosse malato oppure no, e se era malato, non perquisisci casa sua come se fosse un mostro seriale.
Il primo dubbio, la prima domanda non posta, da alcuno a quel che ne so: ti saresti comportato così se a Lubitz fosse venuto un’aneurisma?
Guardate che poteva tranquillamente capitare, mi chiedo se in quel caso avresti perquisito casa sua in cerca, che so, di anticoagulanti.
Mi domando se, di fronte ad una malattia fisica, ti saresti messo a spulciare le sue cartelle mediche, criminalizzando il suo cardiologo o neurologo, se avresti perseguitato i suoi genitori allo stesso modo in cui hai fatto in questo caso.
Nella malattia mentale, anche in quella di Lubitz, si sospetta sempre una volontarietà che in realtà non esiste.
Come non è volontario un’aneurisma, un infarto, così un impulso suicida non è legato alla volontà, per quanto preparato sembri essere.
Sopprimere sé stessi non è frutto di una mente in salute, questo è ovvio.
Tra le inchieste che sono state fatte in questi giorni, direi che vince il premio per la stupidità quella che analizzerebbe il respiro del copilota.
A parte un giornalista di sky tg 24, nessuno si è chiesto se davvero una registrazione fosse in grado di sentire davvero il respiro del copilota.. ma anche se fosse.. a cosa serve?
A dimostrare che è rimasto tranquillo, dicono.
Lucido.
Un depresso che si suicida chiaramente non è lucido, anche se il suo respiro è tranquillo, quindi questo a cosa serve?
Sospetto a sottolineare quella lucidità solo apparentemente negata quando si concede a Lubitz la definizione, piuttosto generica tra l’altro, di depresso.
Il suo respiro non era accelerato, quindi il suo atto era volontario.. Ma in quale senso se la persona in questione era malata?
L’impossibilità per la comunicazione di equiparare malattie psicologiche e fisiche è frutto di una ignoranza su queste ultime che si riflette anche nella seconda riflessione di questi giorni di ascolto dei telegiornali.
Ci hanno detto e ridetto che nella scatola nera si sente il pilota parlare con John delle procedure, e lui rispondere a monosillabi.
Però nessuno ha chiesto o si è chiesto: perché, di fronte ad un umore di quel tipo del copilota, il pilota non ha sentito il bisogno di parlare a quest’uomo in maniera umana, di chiedergli come stava?
La risposta è semplice: il pilota è stato addestrato a comprendere ed a fare fronte ad una malattia fisica: se avesse osservato che il copilota era pallido, sudato, o se quest’ultimo avesse mostrato segni di sofferenza fisica, forse non sarebbe successo nulla, sarebbe rimasto al suo posto o avrebbe chiamato qualcun altro a sostituirlo se il bisogno era urgente.
Ora ci si chiede: perché le compagnie aeree NON hanno mai pensato ad un malore di tipo mentale che possa occorrere ad un pilota o ad un copilota?
Per favore, non mi venite a dire che John aveva già istinti suicidi, l’ho letto anche io, ma parecchie persone hanno impulsi suicidi in un determinato periodo della loro vita, e poi stanno bene.
Lui i colloqui psicologici li aveva superati.
C’è da chiedersi se fossero colloqui o semplici test, e chi c’era a realizzarli, e spero che queste inchieste vengano fatte, ma li aveva superati.
Io dico: in quel momento, quando il pilota ha parlato con il suo copilota, ci si chiede perché non si è domandato il motivo dei monosillabi e dell’umore del suo aiutante?
Non credo sprizzasse gioia da tutti i pori.
Sarebbe bastato magari, una mano sulla spalla, e un chiedere come va, un saper cogliere i segnali.
Dicono che dopo lo abbia supplicato di aprire, tentando di aprire anche con un’ascia.
Ma sappiamo tutti che dopo era tardi, la malattia aveva già tagliato via i confini del reale, lasciando solo quel terribile bisogno di morte.
Non posso fare ipotesi su qualcosa che non so, ma i dubbi ci sono; quanto sappiamo dei depressi e quanto consideriamo importante la salute psicologica, oltre a quella fisica?
L’unica accortezza che ora si vuole prendere è mettere due persone in cabina, ma non servirà a nulla se non si insegnerà almeno a riconoscere i segnali di un eventuale squilibrio.
Oscar numero due alle interviste alla ex fidanzata.
Di nuovo mi domando: se avesse avuto un infarto o un’aneurisma, saremmo andati dalla moglie a chiederle che sogni aveva fatto, o se nei giorni precedenti gli girava la testa?
Avremmo violato la sua privacy per avere conferma che poteva avere o meno un’aneurisma?
No, ovviamente.
Ma in caso di malattia mentale, si, lo facciamo, dobbiamo trovare degli appigli che ci spiegano perché, ma se è una malattia, un vero e proprio perché non c’è e non si trova.
Vorrei fare solo un’ultima considerazione, la notizia degli antidepressivi nella sua casa, quasi come un indizio di colpevolezza di Lubitz, mentre è il contrario.
Stava tentando di curarsi, di stare meglio, ma lo faceva da solo, nessuno si era accorto, colleghi che lo conoscevano e parlavano con lui, genitori, fidanzata, tutti a dire ma lui lo nascondeva bene.
Per togliersi anche quest’ultima responsabilità, ed accollarla a lui, che è morto e non può dire il contrario.
Ed è altrettanto scontato, che tutti noi crediamo a loro, perché loro erano come noi e Lubitz no.
Lui era un depresso.
Lui era un malato che nascondeva la sua malattia, il suo marchio di infamia sotto l’apparenza di bravo ragazzo..
A volte basta una parola, per capire una depressione, basta sapere di non essere soli, per non andarsi a schiantare contro le montagne.
Pensiamoci.

 

 

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