Autismo, resta ancora molto da fare ma intanto è giusto continuare a sorridere
Andrea Polo - Il Fatto Quotidiano
Mio padre ha fatto il medico per più di 40 anni e, dalle prime guardie mediche fino ai tanti giorni passati in ospedale, ne ha viste davvero tantissime; ma se gli chiedevi di raccontarti un episodio che lo aveva colpito, prima o poi arrivava sempre a parlare di quando era a Cagliari ad assistere ad una seduta di ippoterapia dove un ragazzo quasi adolescente, affetto da autismo e che mai aveva parlato, faceva le sue ora in sella ad uno splendido cavallo. Mio padre era seduto sugli spalti attorno alla pista e, accanto a lui, sedeva in silenzio il padre del ragazzo, che guardava suo figlio con un misto di apprensione e speranza.
Alla fine di quell’ora di ippoterapia, una delle tante che il ragazzo aveva fatto, accadde qualcosa di importante; sceso dalla sella andò verso suo padre e, guardandolo, gli disse semplicemente: “papà”. Era la prima volta che accadeva, era la prima volta che quel padre sentiva la voce di suo figlio pronunciare quella parola. Inutile dirvi quale fu l’emozione, non solo dell’uomo, ma anche di mio padre e, ammetto, anche mia nello scrivere ora queste cose.