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La falsa integrazione dei disabili

Da Mario Piovano, genitore di un adolescente autistico, ricevo questo commento (indirizzato al Direttore del quotidiano "La Stampa") all'articolo di Giovanni Orsina che pubblico qui integralmente: "Mi fa molto piacere leggere e condividere totalmente quanto descritto sull'attività integrativa rivolta ai ragazzi con disabilità.  Aggiungo, da padre, che la cosiddetta integrazione dei disabili è una farsa... In realtà dei disabili non si ha rispetto e molto spesso - più o meno elegantemente - li disprezzano con comportamenti e decisioni limitative.  Quasi tutte le istituzioni mostrano spesso timore, paura a comprendere il loro stato reale e quello dei familiari".

6 Marzo, fonte "La Stampa", Giovanni Orsina

Regno Unito 93,8%; Spagna 78,1; Francia 60,4; Germania addirittura 16. Italia, invece, 100%. Se siamo in cima alla classifica – ci dirà subito il nostro solito senso d’inferiorità nazionale – allora dev’esser per certo una classifica negativa. E invece no, è una classifica di civiltà: riguarda l’integrazione dei disabili nelle scuole (i dati sono del Censis, e risalgono a tre anni fa).

Tutti i torti, però, quel senso maligno che ci tormenta potrebbe non averli: dietro a quel meraviglioso, stupefacente, rotondissimo numero potrebbe celarsi una realtà non altrettanto rotonda. Vi propongo di guardarci, allora, nell’ombra di quel 100%, in giorni nei quali si parla così tanto di scuola – addirittura! – «buona». E vi propongo di guardarci non da esperto, ma attraverso l’esperienza di un solo caso d’integrazione durato un intero ciclo di scuola elementare.

Un solo caso, molto personale: non si può generalizzare. Un caso, però, che appartiene anch’esso a quella percentuale. Le risorse, innanzitutto. Se ce ne fossero di più, molti dei problemi dei quali dirò fra breve potrebbero essere risolti, o per lo meno affrontati meglio. Ma, per una volta, proviamo ad afferrare la corda dall’altro capo: integrare un disabile a scuola, anche se per esser fatto davvero bene dovrebbe costare ancora di più, costa comunque un’enormità. E se la disponibilità del Paese a questo investimento per un verso consola, per un altro rende le insufficienze del servizio ancor più intollerabili e frustranti. La famiglia dello scolaro di cui parliamo, a ogni modo, ha potuto constatare tutti i giorni per cinque anni che tanti soldi pubblici venivano spesi per non risolvere i suoi problemi. O almeno, siamo giusti, per risolverli soltanto in parte. Ma perché quei problemi non sono stati risolti, malgrado questo dispendio di risorse? Vi racconto soltanto alcune delle esperienze che son toccate al nostro piccolo disabile.

In prima elementare gli è stata assegnata una maestra di sostegno, ma per un numero del tutto insufficiente di ore. Il sostegno era stato distribuito in una riunione nella quale i genitori dei disabili della scuola, gravi e meno gravi, avevano giocato a lungo a «chi ce l’ha più handicappato?». Un gioco che si può immaginare quanto spassoso. Niente paura, però, la scuola stessa ha provveduto a risolvere il problema con un brillante suggerimento: «fate ricorso al Tar». Sì, ma contro chi? Contro la decisione della scuola, naturalmente. Poi: il «diritto» a una maestra di sostegno di ruolo si matura col tempo – nei primi anni toccano le precarie. Qual è il problema? Ce ne sono almeno tre. Le insegnanti precarie, in primo luogo, sono assegnate ogni anno secondo graduatoria; quindi cambiano ogni anno; quindi ogni anno il nostro piccolo disabile – complicato e delicato – ha dovuto ricominciar da capo. In secondo luogo, le disabilità non potrebbero esser più diverse l’una d’altra, mentre le maestre di sostegno, poiché sono assegnate secondo graduatoria, non lo sono secondo specializzazione. Infine – a meno che il destino nel nostro caso non sia stato particolarmente inclemente –, fra le insegnanti di sostegno precarie che lavorano a Roma ci dev’essere una percentuale sproporzionata di residenti in Campania. No, nessun pregiudizio – se non contro gli effetti del pendolarismo sulla performance professionale. Continuità didattica, addio.

In terza elementare, dopo due anni buttati, il nostro scolaro ha finalmente «vinto» un’insegnante stabile. Una proprio brava, fra l’altro (sì, ce ne sono). Ma a quel punto si è aperto il fronte dell’Aec – l’Assistente educativo culturale, che cura il bambino, lo porta in bagno, gli dà il pranzo. Sì perché, a proposito di risorse, l’integrazione del disabile a scuola prevede due figure, che possono diventare pure tre se si aggiunge l’assistente alla comunicazione. Salvo il fatto che la maestra è statale, l’Aec comunale, e l’assistente alla comunicazione provinciale: e viene da chiedersi se non sia il caso di pregare i genitori del disabile di telefonare alla Regione e scrivere a Bruxelles, già che ci sono – così, tanto per far godere loro tutti i livelli della burocrazia.

Bene, per farla breve: al nostro disabile è toccato un fantastico campionario di Aec, popolato di esemplari più unici che rari. Finché anche quel problema non s’è risolto. Ma era ormai arrivata la quarta elementare. Non c’è probabilmente genitore di disabile che non preferisca per suo figlio l’integrazione in una scuola normale al «confino» in una speciale. Certamente lo preferisco io. Se però l’Italia, dopo aver fatto l’umanissima scelta del 100%, quel 100% non riesce a organizzarlo, a dargli priorità, a rivedere i meccanismi d’una burocrazia macchinosa e inefficiente per farlo funzionare davvero; se un servizio di buona qualità si alterna troppo spesso a uno di qualità scadente, o in qualche caso del tutto insufficiente – allora la scelta umanissima smette di essere una soluzione, e per il disabile e la sua famiglia diventa un problema.

E viene allora da pensare, senza volerlo pensare, che se la civiltà praticata del Paese proprio non riesce ad adeguarsi alla sua civiltà pensata, allora tanto vale che ci rassegniamo, e lasciamo che la civiltà pensata si adegui a quella praticata. Con tanti saluti a quel 100%.