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DIRITTI ESIGIBILI? NON ESATTAMENTE…

di Gianfranco Vitale (articolo pubblicato su superando.it. Si ringrazia la redazione per l'ospitalità)

Mi succede spesso di sentire parlare di “diritti esigibili”, ma confesso che a volte non sono sicuro che chi usa questa espressione ne ha compreso pienamente il senso. C’è una condizione precisa perché i diritti siano esigibili ma non sempre questo requisito pare emergere dai ragionamenti che ascolto o che leggo.

Diciamo subito che i diritti rappresentano per tanti familiari, di soggetti autistici e non solo, veri e propri nervi scoperti. La burocrazia, la farraginosità di molte disposizioni, se non si configura addirittura il non ascolto degli interlocutori, determinano sentimenti -in apparenza contraddittori - di rassegnazione e rabbia: sono quelli i cui risvolti salgono, talvolta, agli onori della cronaca, salvo beninteso essere dimenticati alcune ore dopo, allorché l’audience dei media fagocita e tritura altro.

Davanti a questa realtà è paradossale che qualcuno scriva:Il problema spesso è l’arrendevolezza delle famiglie di fronte allo Stato”. Poco ragionevole perché penso che questa definizione racconti solo un aspetto, per giunta il meno importante, della situazione. La vera questione, detto banalmente, è che – a mio parere - per essere realmente esigibili i diritti devono esistere in concreto e non in astratto!

Porto, a titolo di esempio, l’esperienza che vive attualmente, a Torino,  l’ambulatorio dedicato agli autistici adulti.

Inaugurato nel 2009, con grande enfasi si leggeva allora sulle pagine del sito del Comune: “Per la prima volta in Italia, un dipartimento di salute mentale ha deciso di dotarsi di un ambulatorio che si occuperà in via esclusiva dei disturbi dello spettro autistico in età adulta”.

Prestate attenzione, ora, ai numeri che leggerete. L’ ambulatorio inizialmente aveva come utenti gli autistici adulti di TO ASL2. Al dottor R. K, che si sarebbe occupato della parte medica, venivano date a disposizione 10 ore settimanali. A giugno 2013 fu deciso di allargare l’esperienza anche ad ASL1. Le ore a disposizione del dottor R. K. rimasero 10 ma gli fu affiancata una psicologa per 5 ore. 

A marzo 2014, dopo l’approvazione del DGR sull’autismo, si decise che l’ambulatorio – visti i buoni risultati conseguiti - avrebbe dovuto estendere il suo intervento all’intera regione Piemonte (comprendendo, naturalmente, TO ASL1 e TO ASL2). Le ore assegnate, può sembrare incredibile ma è così, sono rimaste - a fronte di un pauroso incremento dell’utenza - quelle che erano: 10 per la componente medica e 5 per quella psicologica!

Questo quadro orario è, ad oggi, rimasto immutato. La prima immediata conseguenza è stato il formarsi di lunghissime, intollerabili (per chi sa un minimo di autismo) liste di attesa: si è passati da 15 a 120 giorni! Faccio notare che stime (prudenti) del 2011 accreditavano di 16000 autistici (molti dei quali adulti) la regione Piemonte!

E allora: di cosa stiamo parlando? Quale diritto in questo caso è esigibile a fronte di una visione così miope (uso un eufemismo, perché avrei in mente un altro termine)delle istituzioni? Sono arrendevoli i genitori o siamo davanti al collasso colpevole imposto dalla politica?

Diciamo la verità: accade purtroppo frequentemente che la realtà sia molto diversa da quanto la legislazione prevede. Inutile ricordarlo, per esempio, a tanti genitori che leggono nella legge 104 di “programma educativo individualizzato, massimo raccordo delle istituzioni, formazione ad hoc, consulenza esterna se richiesta dai familiari e”... e poi si ritrovano con un pugno di mosche in mano!

Cambiamo ambito? Lascio la parola a Sonia Zen, presidente di Angsa Veneto: “A trent’anni dalle varie leggi sull'integrazione scolastica mi chiedo dove è finito il bagaglio dei saperi accumulati in questo tempo... Mi risulta che pochissime scuole hanno nel Piano di Offerta Formativa qualche proposta per la disabilità... Eppure queste indicazioni darebbero ai genitori la possibilità di scegliere gli inserimenti migliori nelle scuole che hanno a disposizione, rispetto ad altre, un bagaglio di esperienza. Dietro la bandiera dell'integrazione si nasconde un occultamento dei veri problemi legati alla mancanza di flessibilità, alla carenza di formazione specifica e a una ridotta valorizzazione delle competenze. Sembra che dedicare spazi e specificità alla disabilità sia sinonimo di emarginazione e ghettizzazione... Semmai è vero il contrario”.

Continuiamo la nostra panoramica con un nuovo esempio. Parliamo questa volta della legge 68/99. All’articolo 1 è scritto: “La presente legge ha come finalità la promozione dell'inserimento e dell’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato”. Chiedo: “Quanti disabili hanno potuto usufruirne?”.

Sapete che, secondo i dati Istat del 2011, solo il 16% delle persone con disabilità tra quindici e settantaquattro anni ha un'occupazione? Sapete che dai dati del 2012 e 2013, contenuti nella relazione presentata al Parlamento sull'attuazione della 68, emerge che su quasi 680 mila iscritti al collocamento ci sono stati nell'ultimo anno appena 18 mila avviamenti? Sapete che le sanzioni comminate per queste inadempienze si possono contare sulle dita di una mano? Sapete che fra pubblico e privato ci sono, oggi, 41 mila posti riservati ancora scoperti?

Questi esempi (potrei farne molti di più) mostrano che viviamo davvero, Crozza docet, nel paese delle meraviglie. L’Italia ha una legislazione in materia di handicap che probabilmente non ha eguali al mondo. L’unico “piccolo” inconveniente è che quasi nessuna legge è EFFETTIVAMENTE applicata. Il fatto stesso di riconoscere alle persone con disabilità diritti e dignità solo a patto che siano finanziariamente sostenibili, è una autentica aberrazione.

In questo quadro arrivare a “colpevolizzare” le famiglie, sostenendo che sono “arrendevoli” (laddove i fatti dimostrano ampiamente, come mi sono sforzato d dimostrare, la responsabilità della politica), è francamente troppo, tanto più se si tiene conto che oltre il 21% delle "famiglie con disabilità", in Italia, è a rischio povertà!

Chiudo il mio intervento, nella speranza di stemperarne il clima serio, con un aneddoto. Ho provato a chiedere ad almeno dieci persone adulte quale fosse il participio passato di “esigere”. Zero persone, ahimè comprese due insegnanti di Lettere e un paio di universitari, mi hanno dato la risposta giusta.

Al posto di “risposta giusta” stavo per scrivere “risposta esatta”, perché… in effetti il participio passato di esigere è “esatto”. Qualcuno/a dei miei interlocutori si è spinto fino ad affermare che il participio del verbo esigere non esiste proprio… Come dire: “Diritti esigibili? Non esattamente!”

Può sembrare un paradosso ma in questo “pensare ignorante”, alla luce di quanto avete letto, c’è persino un fondo di verità!