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Senza diagnosi - L'autismo invisibile delle donne

Ludovica Merletti e Chiara Nardinocchi - La Repubblica

In parte escluse dalla ricerca scientifica e penalizzate da pregiudizi culturali, così ogni anno migliaia di bambine nello spettro non sono individuate. Disturbi alimentari, violenze e terapie sbagliate sono solo alcune delle possibili conseguenze di questo ritardo. Il racconto di chi l'ha vissuto.

Nell'immaginario collettivo esistono solo due versioni di una persona autistica. Può essere un bambino - maschio - con l'ossessione dei treni: ci gioca tutto il giorno e parla, se parla, solo di quelli. Oppure un giovane adulto, un matematico o uno scienziato geniale - e ancora maschio - che conosce a memoria ogni formula, ogni elemento, ma non capisce il sarcasmo e va in crisi per ogni piccolo cambiamento nella routine.

E le femmine? Spesso dimentichiamo la loro esistenza. Del resto sono molte di meno: in Italia i bambini che ricevono una diagnosi sono oltre quattro volte più delle coetanee. Eppure, gli studiosi sostengono da anni che in realtà i maschi sarebbero “solo” il doppio, al massimo il triplo. Non sembra una grande differenza, ma nella pratica significa che continuiamo a perdere tantissime bambine per strada, migliaia ogni anno. Bambine che poi crescono, faticano sempre di più a mantenere il passo con le richieste complesse della società e spesso vengono diagnosticate con patologie che non hanno o sono solo co-occorrenze dell’asd, come disturbi d’ansia, depressione o disturbi dell’alimentazione. 

La farmacizzazione mi ha fatto venire la polvere al cervello. non so se il concetto è chiaro, ma è quello che sentivo. sono diventata depressa perché non riuscivo più a seguire i miei interessi, le mie cose, però ero obbligata a prendere i farmaci. Non mi tornava, quello che mi dicevano, che era psicosi, schizofrenia, depressione... non me lo sentivo mio. (Francesca, CuoreMenteLab)

Da circa un decennio gli studiosi hanno abbandonato la teoria che l’autismo sia una condizione quasi solo maschile e sono aumentati a livello globale i fondi per la ricerca sulle differenze di genere. Oltre a questo specifico ambito, però, le femmine nello spettro autistico sono ancora di fatto estromesse dagli studi. Secondo una ricerca statunitense, l’esclusione è causata dal modo in cui si selezionano i campioni: nella fase di reclutamento, di solito le persone nello spettro vengono sottoposte a un test di conferma della diagnosi, spesso Ados. In media le donne ottengono risultati più bassi e vengono tagliate fuori dal campione d’analisi in proporzione maggiore rispetto agli uomini. In sintesi, le femmine vengono studiate meno dei maschi perché dei test modellati su sintomi maschili non confermano la loro diagnosi.

“Da quando conosciamo meglio l’autismo, la prima cosa che abbiamo capito è che non è una patologia – spiega Luisa Di Biagio, psicologa esperta in autismo, attivista e donna autistica – è una condizione della specie, è un modo di essere umani. Così come si è biologicamente maschi o femmine, si può essere neurodiversi o neurotipici. Di Biagio, che ha ricevuto la diagnosi da adulta, assicura che la percentuale femminile è altissima: “Da dieci anni vengono individuate sempre più bambine, ma anche ragazze e donne mature”. Nonostante i progressi, restano quasi invariate le difficoltà e i ritardi nelle diagnosi, soprattutto per chi ha un quoziente intellettivo nella media e ha bisogno di un supporto limitato.

In Italia, si stima che le persone autistiche siano una su 77. Anche se non ci sono numeri precisi, parliamo di circa 750mila uomini e donne. Non esiste un modo definitivo per descrivere l’asd: le caratteristiche possono essere molto diverse. Ma quelle condivise, che portano alla diagnosi, sono sostanzialmente due, stabilite dal Dsm-5: deficit persistenti nell’interazione sociale e comportamenti, interessi, attività ristretti e ripetitivi. Si parla di spettro proprio perché il grado e le modalità con cui i sintomi si manifestano sono variabilissimi, ma non influiscono nella diagnosi: tutte le persone nello spettro sono autistiche.

Quando sono stata diagnosticata ho provato una grande liberazione, la prima cosa che ho pensato è stata "Allora non è colpa mia": non era colpa mia se ero strana, non era colpa mia se non riuscivo a essere come gli altri. (Serena, Giuliaparla)

In media la prima visita specialistica per le bambine autistiche con un quoziente intellettivo nella norma e non ancora diagnosticate avviene attorno ai nove anni: tre anni dopo rispetto ai maschi. Questo ritardo è conseguenza di fattori culturali. Timidezza e introspezione sono considerate qualità “femminili”, mentre per i maschi gli standard di comportamento sono diversi: se un bambino ha delle difficoltà a farsi degli amici, a interagire, va visitato, mentre per una bambina è normale, deve solo incontrare le persone giuste.

Inoltre, le bambine nello spettro ci sembrano diverse dai maschi: non presentano le caratteristiche che comunemente vengono riconosciute, o se lo fanno, vengono accettate più facilmente e più a lungo dalla società che le circonda. Spesso i loro interessi speciali, ad esempio un animale o una celebrità, sono meno percepiti come “strani” e incoraggiati, al massimo tollerati. Inoltre, le bambine e le ragazze autistiche riescono meglio dei maschi a inserirsi in dinamiche sociali. Questo perché tendono a sviluppare strategie per affrontare la quotidianità, aiutate dal modo in cui vengono educate. Per Di Biagio la differenza tra maschi e femmine è spiegabile sia da un punto di vista biologico-genetico (che in parte conosciamo, in parte è ancora in fase di studio), sia da un punto di vista ambientale e strutturale: “Le bambine, fin dalla primissima infanzia, sono abituate a ricevere sempre delle istruzioni esplicite: ‘stai dritta sennò non trovi il fidanzato, fai la brava sennò cosa pensano di te’. C’è un sistema di modellamento che fornisce informazioni in maniera leggibile. Al maschio tutto questo è precluso”. Alle femmine vengono date indicazioni posturali, si insegna loro a truccare, vestire le bambole, ricevono un vero e proprio addestramento alle regole sociali neurotipiche.

Un esempio di questa difficoltà viene da una ricerca del 2018. A Pisa, sono stati analizzati i bambini e le bambine tra i 7 e i 9 anni per individuare casi di autismo non diagnosticati. Gli insegnanti dovevano indicare un minimo di due alunni per classe che rientrassero in determinate caratteristiche. Dopo questa prima fase, i genitori di una bambina non selezionata per la visita si sono presentati autonomamente ai ricercatori. La diagnosi di autismo è arrivata così. Il suo insegnante non l’aveva segnalata, non si era accorto della sua diversità, non l’aveva vista. La ratio maschi/femmine che emerge dalla ricerca è di 3,3:1. Più bassa della media nazionale, ma i ricercatori ammettono che ci potrebbe ancora essere una sproporzione a favore dei maschi.

Crescere senza sapere di essere autistiche è un’esperienza disorientante e incredibilmente faticosa: ogni minuscola interazione va analizzata, assimilata e copiata all’infinito. È come far parte di una cerimonia di cui non si conoscono le regole. “Ricevere una diagnosi vuol dire trovare identità – dice Di Biagio – capire come funzioniamo, cosa chiedere e come chiederlo, perché proviamo quello che proviamo”. Non conoscere il nome, e di conseguenza il motivo, della propria diversità spesso sfocia in patologie, come disturbi d’ansia o depressione. La psicologa, che ha anche scritto un libro sul tema, “Autismo e alimentazione”, dichiara che il 23% delle donne che soffrono di disturbi dell’alimentazione sono autistiche.

Avevo malesseri concreti reali e forti, nessuno capiva cosa mi stava accadendo. A un certo punto fui sopraffatta da tutto ciò che sentivo e sviluppai sia anoressia, che bulimia e sindrome da alimentazione incontrollata. Io penso che queste cose siano conseguenza di una mancata diagnosi. (Roberta, Giuliaparla)

Soprattutto, non sapere di essere nello spettro è pericoloso. Una ricerca francese ha rilevato che nove donne autistiche su dieci hanno subito violenza sessuale nella loro vita, specialmente da adolescenti, il triplo rispetto alle neurotipiche. Il dato rivela che le donne nello spettro sono incredibilmente più vulnerabili: faticano a riconoscere i segnali di pericolo. Quando provengono dall’esterno, da uno sconosciuto che chiede un’informazione per strada, o un favore, “mi presti un secondo il telefono per una chiamata?”, “mi accompagni per un pezzo di strada?”. In particolare, hanno meno strumenti di difesa quando i pericoli provengono dall’interno, da un marito, un fidanzato o un parente. Non leggono le intenzioni, i sottintesi, sono più “ingenue”, al punto che possono essere scelte come compagne perché più facili da manipolare, a maggior ragione se non conoscono nemmeno il motivo della loro vulnerabilità.

È passato quasi un secolo da quando Hans Asperger ha descritto per la prima volta il comportamento di quattro persone autistiche con un quoziente intellettivo nella norma: erano tutti maschi. Ci sono voluti decenni per prendere in considerazione solo l’ipotesi che le femmine autistiche esistano. Quanto dovranno aspettare ancora per essere viste?

Autismo e identità di genere

Finora abbiamo parlato di maschi e femmine cisgender, o presunti tali. Siamo abituati a pensare alle persone trans o non binarie come una minoranza assoluta, e in effetti nella popolazione neurotipica non sbaglieremmo. In Italia le persone trans sono circa l'1%. Luisa Di Biagio, che ha anche scritto un libro sul tema, "Binari divergenti", dice che "questo dato nella popolazione autistica è invertito: il 70% si definisce trans o non binaria".

Se l’autismo nelle persone biologicamente femmine viene studiato con più costanza da una decina d’anni, la ricerca sulle persone trans è ancora agli albori. Non si conosce il motivo della correlazione tra asd e identità di genere: “Può essere che il campione autistico risponda meno alla pressione sociale – spiega la psicologa –, potrebbe essere anche che ci sia una predisposizione genetica determinante”. Quello che è certo, per Di Biagio, è che svela una complessità della specie umana: “L’attuale classificazione, basata sul maschio ariano eterosessuale privo di qualsiasi condizione o patologia, è obsoleta”.

In Italia, il personale sanitario non è aggiornato sull’autismo o, se lo è, è specializzato nell’autismo con co-occorrenze gravi, dice la psicologa. Il rischio che le persone autistiche trans o non binarie non ricevano mai una diagnosi di asd è altissimo, nonostante siano la maggioranza. Di Biagio definisce il fenomeno “eclissi della diagnosi”: una condizione “nasconde” l’altra, con conseguenze spesso drammatiche.

Ci sono anche degli aspetti positivi, sottolinea l’esperta. Essere parte di una minoranza porta a sviluppare rapporti con persone con cui si condivide la diversità. Si formano delle reti di supporto che permettono alle persone neurodiverse trans o non binarie di sperimentare, dice Di Biagio, “lo stesso addestramento alle regole sociali neurotipiche riservato alle bambine”. La ragazza trans e autistica riceve da un’amica trans le stesse istruzioni esplicite – “se vuoi questa cosa, devi fare così” – che ricevono le persone biologicamente femmine per tutta la vita.

 

https://www.repubblica.it/cronaca/2022/12/13/news/autismo_ritardo_diagnosi_donne_bambine-378682260/