Il centro dove fa terapia è una villetta bellissima e amena, nel periodo giusto ti accoglie con delle meravigliose rose e nel cortile antistante c'è una fontana altrettanto piacevole. Ma io, le prime volte che accompagnavo Pietro, non riuscivo a vedere la bellezza di quel posto e la serenità che può trasmettere, perché arrivavo carica di rabbia e convinta di essere comunque stata destinata all'Inferno. Non riuscivo a ridere e scherzare con gli altri genitori nella sala d'attesa come oggi faccio, non mi capacitavo di come lì potesse esserci un clima così "normale", come quando le mamme aspettano i figli a nuoto o a danza. Col tempo ho capito quanto potesse essermi d'aiuto trovare il mio angolo di serenità in quella stanza luminosa da cui posso guardare le rose e non rifiutare il contatto.
L'altra "categoria" di persone che mi fa sentire più forte di fronte alle barriere dell'autismo è composta dalle mie colleghe. Sì, perché nella trappola dell'autocommiserazione ci sono caduta appieno e quando siamo stati investiti dalla diagnosi fatta a Pietro mi sono spesso ripetuta di essere stata sfortunata e di "non meritarmi questo". Ciò che merito non lo so, ma forse non meritavo nemmeno persone che mi hanno accolta con così tanto affetto, materne e concilianti quando ne avevo bisogno, più "severe" e determinate nel darmi consigli al momento giusto.
Una di loro, in particolare, mi ha commossa perché per capire come approcciarsi a Pietro nel modo migliore ha letto un libro scritto da una grande donna, Temple Grandin, una docente universitaria autistica. Lo ha letto e poi un giorno me lo ha dato in punta di piedi. E anche se io il libro lo riesco a leggere solo a tratti, lo guardo e riguardo impolverarsi sul comodino come se ne avessi timore, non importa. Perché quel libro mi ha ricordato che a affrontare le infinte barriere dell'autismo non sono mai stata sola.